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Un giovane David Lynch dirige The Elephant Man (1980)
Come tanti della mia generazione, ho scoperto David Lynch in casa. Con i miei genitori, per essere precisi. A undici anni non avevo idea di niente, men che meno di che cosa fosse Mullholand Drive. Pensavo fosse solo il titolo di un film, il nome su un DVD, e poi invece… Di quella sera ricordo soprattutto l’atmosfera di imbarazzo nella stanza, il silenzio teso, l’incomprensione. Ricordo le immagini dei corpi sullo schermo, tra le dita di mio padre che cercavano di coprirmi gli occhi. E la distinta sensazione, anche, di avere un corpo. Di essere un corpo. Sentire la pelle desiderante, la pelle impaurita. E quindi sentirsi nudi, in difetto nella propria casa, scoprire qualcosa di nuovo, provare qualcosa di proibito. Cosa privata. segreta. Nuova.
Da quel giorno vedere i suoi film, per conto mio, in autonomia, e senza parlarne più, ha significato scoprire ogni volta “il nuovo”. Un’adolescenza nascosta, una ribellione del gusto forse. Non secondo la segnaletica abituale. Ma per le vie spiraliformi di un percorso di conoscenza al contrario, che invece di andare dall’ignoto al noto ha seguito la via traversa e opposta, quella che dal noto va all’ignoto. Un insegnamento al mistero, all’inspiegabile.
L’attrito con l’oscurità dei suoi film ha fatto scintilla. Ricordo, mentre lavoravo nel magazzino della libreria, che nelle pause guardavo Twin Peaks . É stato nel tentativo di decrittarlo, che per la prima volta ho scoperto la semiotica cinematografica di Paolo Bertetto, un’estate appena maggiorenne. E quindi una struttura di pensiero, un modo di vedere le immagini, costruito sul negativo, sul vuoto generativo, sullo zero al centro della ciambella, su un girare continuo e fallimentare. Un insegnamento a provare e fallire di nuovo.
Fissando a lungo i suoi film negli occhi, qualcosa rimane impresso nella retina, la ferita di quando si guarda la luce per troppo a lungo e poi al buio rimane il segno di un’eclissi mentale. Resta qualcosa, il senso dell’esistenza di un confine, e poi di un movimento a trascendere. Ricordo Strade perdute al cinema con mia madre, nelle nostre sortite solitarie di provincia per inseguire gli anniversari d’autore. La strada al ritorno, di notte, percorsa parlando del film, non sembrava la stessa. Ricordo poi la suggestione di una mostra su Francis Bacon, matrice di molte, se non di tutte le immagini di Lynch, il sussurro di persone che riconoscono una traccia, un’origine condivisa…
E l’ultimo ricordo su schermo è di una conversazione, tra me, fortunoso spettatore in una sala vuota, Steven Spielberg e lui, nei panni di John Ford. Chi mai se lo sarebbe aspettato che il più grande campione della meraviglia avrebbe scelto il più grande campione dell’inquietudine per avvertire il cinema americano del suo disorientamento?
È sconsolante dirsi la verità, e cioè che questo cinema, oggi sempre più in crisi, sempre meno ricco di idee e di coraggio, sentirà la mancanza di questo regista. Occorre, allora forse leggere nella sua assenza improvvisa, un ultimo insegnamento, e cercare di viverlo. La linea dell’orizzonte è una storia vera, ed è là, oltre ogni certezza. Resterà mobile grazie ai ricordi, come la pelle, l’elettricità, gli immaginari, il tempo, il cielo stellato di notte.