Così irrimediabilmente votati alla parità, da fratelli gemelli, da pretendere lo stesso punto di partenza. Per sé e per gli altri. Sicché provandosi, dopo un tot di lungometraggi, nella serialità Fabio e Damiano D’Innocenzo hanno voluto farsi altri da sé, da quel passato filmico, e parimenti voluto altri farsi da sé, nel futuro filmico. No, non è una supercazzola, la nostra, ma apertura alla possibilità, la loro, e condivisa: impegnandosi in un altrove, hanno chiesto ai compagni d’avventura di fare altrimenti, di uscire dal filmato della propria filmografia. Sicché Matteo Cocco, talento realizzato delle luci, che eccelso nel digitale è richiesto di passare all’analogico, alla pellicola 16mm, per mettersi pure lui in una terra di nessuno, in un altrove inesplorato in ossequio, e in sinergia, alla prima volta seriale di Fabio e Damiano.

Lungi dall’essere handicap, penalizzazione, è un nuovo mondo, è un nuovo modo, che squassa il piano cartesiano, e fulmina il (p)regresso: alla rivoluzione con due cavalli di razza, talvolta scossi (America Latina), sempre affabulanti (Favolacce), mai bastanti a sé stessi (La terra dell’abbastanza). Non fanno prigionieri, nemmeno di sé stessi, e procedono per indole aliena e rabbia giovane, a mandare all’aria la pastorizzazione, l’omologazione, la ritmica della serialità corrente: l’algoritmo che fa drammaturgia, l’high concept, il crime che si castiga, il delitto che si (as)solve, e tutto con frenesia, hype e procurato binge watching.

Macché, per Dostoevskij - serie Sky Original, dall’11 al 17 luglio in sala - si va in una terra straniera, in una zona franca, dove azzerare il cursus honorum, riconcedersi all’epifania, stracciare l’ovvio. In fondo, è ancora – e forse sempre sarà – America (e) Latina, loro e noi, e i D’Innocenzo per catalisi, memori – l’horror del giovane Pupi Avati, l’inarrivabile antologica inglese Red Riding, la prima ineguagliata stagione di True Detective, l’incubo mimetico di Fruttero e Lucentini, la desolazione armata di Loriano Macchiavelli, la bonomia italiana e il wit anglosassone di un superbo Federico Vanni à la Gino Cervi di Peppone – e dimentichi, affamati e cannibali. Gli spari sopra sono per noi, l’eco terragna da sollevare il dubbio: Stefano Sollima è al lavoro, ma chissà che avrebbero fatto i D’Innocenzo con il Mostro di Firenze.

Dostoevskij
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La loro serialità è per accumulo poetico e sottrazione stilistica: rovelli, paranoie, aberrazioni, chilometri di lettere a corredo delle ammazzatine, di qua; evasioni, elusioni, elisioni, ellissi, escissioni, di là. Il miracolo dell’osceno, la calce viva sui sepolcri imbiancati, e il miracolo della scena, la sordina formale a cotanta efferatezza, e in mezzo lo scrittore per antonomasia, il demone, il delittuoso e castigato Dostoevskij – e siam pronti alla morte: “Io credo – i fratelli prendono da David Hume – che nessun uomo abbia mai gettato al vento la sua vita, quando valeva la pena di conservarla”.

Si va al termine del viaggio, non dritto per dritto, ma per girovagare in uno stretto male, in una pianura liquida e mefitica, palude di perversa costituzione e infimo drenaggio, in cui un giammai d’oro Enzo Vitello, il redivivo Filippo Timi, è chiamato ad assicurare alla giustizia il serial killer Dostoevskij, così ribattezzato per le lettere che lascia accanto a ogni cadavere, coagulando “affilata sofferenza, l’immondizia di essere vivi e l’unica giusta espiazione: divenire morti”.

Si potevano forse, Fabio e Damiano, dimenticare, di più, rinnegare la pasoliniana necessità di morire, laddove l’epilogo solo rischiara e invera l’esistenza? Certo che no, e dunque radicalità, rincaro, sprezzo non del pericolo ma della quiete, che è poi lo stato più pernicioso dell’essere: il serial killer viene messianicamente quale istanza, meglio, attante “perturbante che analizza il caos della vita, l’inutilità di essa, la fonte di dolore, disperazione, annichilimento: vita come posizionamento nel nulla”. Nessuna cortesia per gli ospiti, nessun inchino all’enciclopedia (di genere) e all’agenda (criminale, nel senso di crime, anche di Romanzo criminale), e viva la brachicardia, se serve a isolare battito su battito, che è sì uno in più ma anche uno in meno alla fine: si va al noir in direzione ostinata e contraria, per la provincia meccanica nel dissodamento dei luoghi comuni, nella spazzatura bianca, white trash si direbbe ad altre longitudini, con gli strumenti dell’entomologo, e dunque si tiene il ritmo senza foga né prescia, nell’accettazione temporale, e morale, dell’inutilità del soccorso, della prassi.

L’incedere è lasco, la drammaturgia come zampogna, gli accadimenti – sopra tutto nei primi formidabili due episodi di sei – distillati, e se molto è deciso tutto è compromesso: Vitello, e chissà chi capro, butta giù pillole, fa professione che di fede non è, ha una figlia squatter (Carlotta Gamba) che a sfregio gli invia un video in cui viene scopata da due neri. Ma questo è solo, si fa per dire, l’umano, la natura morta non è contorno, non è abbrivio né esito, bensì realtà vana ma non eventuale: i paesaggi, i cieli senza presagi, gli esordi antropici, le spoliazioni molteplici, l’inteso andare ai resti.

Fabio e Damiano vincono la partita associando all’ossessione ideologica la distensione temporale e l’estensione spaziale: è una landa Dostoevskij, con i Chisciotte e i mulini a vento, Pancho e panza a terra, spurghi e cielo aperto, e l’abisso che ti guarda dentro. Il rischio è del contagio, la setticemia dell’etica, la suppurazione dello status quo, le “estreme conseguenze dell’essere vivi”, e Vitello il profeta di tutte le battaglie che non possono essere vinte, di tutti i giochi di ruolo che non possono essere confessati: lui, e lui solo, “un uomo che ha perso tutto in una terra di uomini che hanno perso quasi tutto”.

Dostoevskij
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Forse ora faranno Petrolio del loro Pasolini, forse Dissipatio H. G. di Guido Morselli, ma dopo questa peregrinazione marcescente e terminale, più liminare che liminale, i fratelli non potranno che essere sé stessi, protesi su un cinema fuori formato e dentro la forma, sospeso nell’altrove e catapultato hic et nunc, in cui la geometria dell’umano non è euclidea, in cui la somma delle parti è ineludibile sottrazione, l’atmosfera corpo del reato, l’ironia spaesamento. Potremmo rimanere a guardare Dostoevskij per ore, e in effetti le dura. Ed è nel durare, nel permanere a discapito della voga (l’algoritmo che cadenza), della vita (terminale, qui) e della voglia (non stupiscono, i fratelli, si sono affrancati dalla performance), che i D’Innocenzo si mettono sullo stesso piano, finalmente e fatalmente: vi ricordate dall’alto in basso nel finale de La terra dell’abbastanza? Vi ricordate i due piani, ontologici e tutt’altro, di America Latina? E il falsopiano di Favolacce, che dissimulava lo scavo psicologico?

Qui trovano la pianura, promessa di sventura ma solo diegetica, qui trovano la paratassi, premessa di catarsi ma solo sventata, e su questa terra – sono i nostri registi più terragni, pensateci – erigono sé stessi e un altro film possibile, in cui affrancarsi dai falsi sé, dai Gucci esibiti e appellati, dai produttori screanzati o temerari, dalla fama ma non dalla fame: è l’abbastanza della terra, irrigata da un’acqua non lustrale, solcata da un fiumiciattolo che sa ma non ha le prove – il Mignone e le sue (non) evidenze da dragare. Di un altro libro del mai abbastanza compianto Morselli, Roma senza papa, Vittorio Gorresio ebbe a scrivere su La Stampa: “È una costatazione abbastanza malinconica della fine di una solenne istituzione, ma è tutt’altro che dissacrante come una satira potrebbe essere, è piuttosto un racconto, deduttivo, dei fatti che hanno portato alla decadenza ed alla crisi attuale della Chiesa”. Levate Chiesa, mettete crime: ecco, Dostoevskij.