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Jasmine Trinca e Luisa Ranieri in Diamanti
Chi c’è: è l’anno del
le registeIl miglior modo per festeggiare la settantesima edizione del David di Donatello? Premiare, per la prima volta nella storia, una donna come miglior regista. Ma, in attesa di capire se primato sarà, un record c’è già: la prevalenza della cinquina è femminile, con Francesca Comencini (Il tempo che ci vuole), Maura Delpero (Vermiglio) e Valeria Golino (L’arte della gioia, la serie Sky uscita nelle sale) in corsa per un posto nella storia. Senza dimenticare la cinquina dei documentari, con quattro registe che, in un modo o nell’altro, parlano di sé: Sonia Bergamasco in gloria della maestra Duse – The Greatest, Costanza Quatriglio e Il cassetto segreto sulle tracce del padre, Antonietta De Lillo con l’autoritratto L’occhio della gallina e la Lirica Ucraina della giornalista Francesca Mannocchi.
Chi non c’è: il regista delle donne
Ovvero Ferzan Ozpetek. Il suo Diamanti ha già vinto il David dello Spettatore per il maggior numero di presenza in sala ma registra solo due nomination: una per Geppi Cucciari come miglior attrice non protagonista e una per la canzone originale scritta e interpretata da Giorgia con Giuliano Taviani e Carmelo Travia. Cosa non ha funzionato nella campagna elettorale? Com’è possibile che un film con quasi venti donne nel cast torni a casa con una sola candidata? Davvero un film su una sartoria specializzata in produzioni cinematografiche manca la cinquina dei costumi?
Chi c’è: Tecla Insolia, a star is born
A parte la già vincitrice e sempre infallibile Barbara Ronchi (terza nomination consecutiva, in gara con Familia, una delle sorprese dell’annata: è il titolo su cui ha puntato Medusa), la cinquina delle attrici conta tutte giovani in rampa di lancio. Una consuetudine delle ultime edizioni, sempre più focalizzate sulla celebrazione dei nuovi talenti. Ma Insolia, già tra le sei rivelazioni dell’anno (le altre sono Celeste Dalla Porta, anche lei in cinquina, Carlotta Gamba, Federico Cesari, Matteo Oscar Giuggioli ed Emanuele Palumbo), porta a casa anche la nomination tra le non protagoniste, insieme a veterane come Valeria Bruni Tedeschi (settima candidatura) e Jasmine Trinca (undicesima): a star is born.
chi non c’è: i gemelli e la regola di arbasino
Se con 14 nomination L’arte della gioia si candida a replicare il successo di Esterno notte (una serie proposta al cinema e dunque idonea per i David: l’ambiguità è forte, ma il regolamento parla chiaro), Dostoevskij di Damiano e Fabio D’Innocenzo deve accontentarsi di due sole menzioni (che, paradossalmente, sono piuttosto pesanti: fotografia e montaggio). Alla quarta regia, i gemelli si confermano materiale infiammabile per l’Accademia: ignorati per l’esordio La terra dell’abbastanza, snobbati per Favolacce, ignorati con America Latina. Che le già “brillanti promesse” siano ormai percepiti dal mondo cinema in quella fase che il divino Arbasino definiva “soliti str*nzi”?
chi c’è: quando c’era Berlinguer
Il biopic di Andrea Segre è il frontrunner dell’annata insieme a Parthenope di Paolo Sorrentino. Ha funzionato bene nelle sale, vanta una grande performance di Elio Germano, può contare sul sostegno di Rai Cinema. Ma, chissà, forse avrà inciso anche il clima politico ostile, considerando anche la candidatura di Prima della fine di Samuele Rossi, bel documentario sulle ultime ore del segretario. Quasi una dichiarazione d’intenti: nel cinema italiano, la nostalgia è un programma di governo.
chi non c’è: quando c’era Servillo
Strano il destino di uno degli attori italiani più influenti e presenti degli ultimi anni. Tredici candidature in ventuno anni, quattro premi raccolti in appena un decennio, a secco dal 2014, viene completamente dimenticato nell’anno di Iddu e L’abbaglio, due film importanti eppure praticamente ignorati (il primo ha due nomination per musiche e canzone, entrambe a Colapesce, il secondo è fuori da ogni categoria). E nell’anno in cui nella cinquina degli attori ci sono tre beniamini degli elettori (fenomeno che non accade tra le attrici): Germano rischia il sesto David, Silvio Orlando potrebbe vincere il quarto (ma in Parthenope è onestamente un non protagonista, la scelta di posizionarlo tra i leading è bizzarra), Fabrizio Gifuni il terzo. E se alla fine la spuntassero la brillante promessa (Francesco Gheghi per Familia) o un consumato istrione alla prima candidatura (Tommaso Ragno per Vermiglio).
Chi c’è: momenti di gloria
Con ben 9 candidature, l’opera prima di Margherita Vicario è la più apprezzata dai votanti. E per la quarta volta consecutiva potremmo vedere il trionfo di una regista debuttante. Che, sulla carta, potrebbe tornare a casa con ben quattro statuette: esordio, sceneggiatura originale, colonna sonora e canzone originale. Un poker che arriverebbe un anno dopo l’exploit di Paola Cortellesi (per C’è ancora domani conquistò cinque statuette).
Chi non c’è: l’animazione
Piuttosto curioso che nella cinquina degli esordi manchi Invelle, la sofferta e preziosa opera prima di Simone Massi, uno dei maestri dell’animazione europea già vincitore di un David per il corto Dell’ammazzare il maiale nel 2014. È una triste corrispondenza tra industria ed elettori, sistema e Accademia: Gatta Cenerentola resta un’eccezione (fu nella cinquina del miglior film nel 2018), l’Italia non è un paese per animazione d’autore.