Era il 1990 quando, vedendo Cuore selvaggio, in molte scoprimmo di voler essere amate come Sailor ama Lula, cioè di un amore che non conosce ostacoli di sorta e punta dritto alla felicità. Una storia che nel giro di due ore fece dimenticare come pochi anni prima David Lynch, il più eccentrico dei registi americani, con Velluto blu avesse mostrato chiaramente come la donna fosse l’oggetto prediletto delle ossessioni di uomini incapaci di accettarne la bellezza e la diversità, e perciò concentrati a sfuggirla o a sfregiarla, talvolta persino ad annientarla.

Niente da fare, dell’ossessione per il sentimento assoluto di Sailor per Lula non ci siamo liberate nemmeno qualche mese dopo, quando finalmente anche in Italia arrivano le otto puntate di Twink Peaks a rendere chiaro che alle ragazze più o meno giovani, per quanto irriducibili, è riservato un destino di vittime. Anzi, sono vittime proprio perché irriducibili. Da quel momento in poi bisogna prendere atto di una visione netta e indiscutibile: Lynch ha spalancato le porte dell’inferno in terra e mostrato senza filtri che a finire coperte di sangue sono più facilmente le conturbanti protagoniste degli incubi che porta sullo schermo, che non gli uomini supposti innamorati e i padri amorevoli.

Come sempre, però, in Lynch nulla è come sembra. I mondi si moltiplicano, e non meno le personalità di chi li abita. Del resto fermarsi alle apparenze sarebbe impossibile, nei suoi film non esiste strato che non possa essere sollevato senza trovarne sotto un altro ancora più vivido e apparentemente più vero e credibile del precedente. Così avviene con i personaggi, che sembrano cambiare personalità come un abito facile da sfilare via dal corpo. Un gioco più evidente quando in scena vibrano le presenze femminili, particolarmente sfuggenti nonché ammantate di misterioso erotismo.

Gli uomini sono manifesti portatori del male, le donne mascherano la propria essenza sotto veli di verità fittizie. Corpi fluttuanti eppure estremamente carnali, in grado di farsi da soggetto manipolatore a oggetto di brutalità e viceversa con la velocità di un lampo luminoso. Gli esseri più sfuggenti di tutto il cinema di Lynch, di conseguenza i più complessi da decifrare. Anche nel momento in cui, come nel caso di Laura Palmer, vedendola a terra esanime si è portati a cadere nel tranello che nella morte tutto si sia definitivamente compiuto, mentre al contrario la realtà è ancora da scoprire e destinata a ribaltare le apparenze. Un destino che la giovane studentessa di Twin Peaks condivide con quasi tutte le eroine lynchiane, letteralmente disgiunte all’interno di sogni oscuri in cui non c’è spazio per la felicità.

Naomi Watts e Laura Harring in Mulholland Drive
Naomi Watts e Laura Harring in Mulholland Drive

Naomi Watts e Laura Harring in Mulholland Drive

In Strade perdute e Mulholland Drive, le protagoniste si sdoppiano di fronte agli occhi dello spettatore creando un gioco di specchi in cui separare una personalità, e una vita, dall’altra richiede uno sforzo notevole quanto, alla fin fine, inutile. Renée Madison/Alice Wakefield di Strade perdute ha in comune con Betty Elms/Diane Selwyn e Rita/Camilla Rodhes di Mulholland Drive la permanenza di un segreto che è poi quello della complessità dell’esistenza stessa, di per sé impossibile da svelare. Un mistero recondito che, sembra suggerire Lynch, è risposto essenzialmente all’interno del cuore femminile, organo che ogni uomo vorrebbe strappare per potervi leggervi dentro.

Il regista del Montana, negli anni e con pochi film, ha costruito una tra le più spietate messe a nudo del maschio americano che sia dato di conoscere: spettatore della vita anziché attore, che usa la violenza e la sopraffazione come armi per illudersi di dominare quando, al centro della sua esistenza, c’è sempre la donna. Lei il motore dei peggiori incubi squadernati dal regista; figura emblematica cui paga un tributo, per quanto intriso di sangue, ponendo sotto i nostri occhi uno dei peccati che macchiano la società americana, cioè la difficoltà da parte dell’uomo di accettare quella parità che invece Sailor, mosso dall’amore, non pensa di mettere in discussione. Ed ecco che si torna a Cuore selvaggio, il sogno al posto dell’incubo. L’unico, di tutti i film di Lynch, in cui non si combatte per liberarsi dall’amore bensì per volervisi sottommettere totalmente fino alla morte.