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Todo modo
Todo modo di Leonardo Sciascia colpì molto la mia fantasia di liceale: thriller politico dagli accenti apocalittici, storia complessa e ingarbugliata come una matassa da districare. Perciò, quando al paese proiettarono il film con lo stesso titolo, andai a vederlo. La mia immaginazione di lettore doveva vedersela con la visione del metteur en scene. Non andai deluso. Del resto mi ero piacevolmente nutrito di film politici e di impegno civile come quelli di Petri, Rosi, Montaldo, Damiani. Lo rivedo a distanza di cinquant’anni e ritrovo il capolavoro, dalla qualità profetica ed etica che danno valore a una vicenda grottesca e tragica, se si fa memoria di quella classe di politici allegoricamente rappresentata, e della fine che ha fatto.
Innanzitutto la figura di uno dei protagonisti, il presidente, in cui già all’uscita del film vennero riconosciuti i modi e il parlare forbito, e flemmatico, di Aldo Moro, politico e statista la cui tempra morale è tuttora riconosciuta. Così come il gruppo di politici corrotti appartenenti alla Democrazia Cristiana, partito che ha governato l’Italia sino alla novità del “compromesso storico”, di cui Moro fu fautore e allo stesso tempo vittima. Da tale “accordo”, dopo il suo sanguinoso rapimento da parte delle Brigate Rosse e il successivo assassinio, ebbero origine i governi democratico-socialisti; sino all’inchiesta di “Mani pulite” che spazzò via la Tangentopoli italiana e i suoi politici corrotti o presunti tali, determinando la fine della Prima Repubblica.
Il film, a un certo punto, fa riferimento a una miriade di sigle che indicano società, enti, organizzazioni, istituti, federazioni di cui spesso a capo c’erano ministri, sottosegretari, senatori, onorevoli e così via, attraverso le quali venivano accontentate le correnti di partito. Già al suo debutto, dunque, Todo modo era nato con un destino segnato: dopo i fatti tragici di Moro e l’avvento della Seconda Repubblica aveva “poco da dire”, anzi, dava fastidio a troppi. Circa dieci anni fa il film viene ricuperato, restaurato e riproposto al pubblico.


Todo modo
La storia è conosciuta. Mentre nel paese si sta diffondendo una virulenta epidemia (il casuale richiamo a un recentissimo passato è giocoforza) un centinaio di politici (103 per la precisione) si riuniscono in una casa per esercizi spirituali costruita come un bunker-catacomba tra il verde di una pineta non lontano dalla città. Sono membri delle correnti del partito di governo “invitati” a svolgere un tempo dedicato agli esercizi spirituali ignaziani, guidati dall’imponente e severo predicatore, il gesuita don Gaetano. Gli esercizi nello stile ignaziano sono una occasione di orientamento nell'attuale delicata situazione. Ma è solo l’espediente per ritrovarsi e riaffermare, o ricondizionare, le spartizioni delle sigle che consentono loro di guadagnare sulle spalle dei poveri e degli operai.
Tutti sono interessati a mettersi d’accordo su come spartirsi il potere. Perciò l’attesa di un inquietante personaggio, che tutti chiamano allusivamente ed elusivamente “Lui”, è in fondo la vera ragione della partecipazione a un evento che altrimenti risulterebbe inutilmente pesante e fastidioso. Esserci per apparire… e ottenere.
Stride la forza minacciosa e inquisitoria del gesuita che non ha dubbi sulla corruzione totale del gruppo. Ad essi propone le meditazioni sul peccato (il peccato politico), l'inferno e la croce. Del resto già alla cena della vigilia il clima di ipocrisia era stato avvertito da un infastidito cardinale che abbandona la casa di esercizi, dopo una messa nella quale, si scopre, sono state sacrilegamente rubate persino le ostie. L’intento di don Gaetano è quello di svelare la corruzione e indurre alla purificazione. Ma i suoi modi non rivelano l’ineccepibilità della sua statura spirituale e morale. È più temuto che ascoltato. Ben presto il simposio spirituale si trasforma in una pletora di reciproche accuse da cui scaturisce ben presto la rissa e il morto sparato, primo di una lunga serie, che getterà nel panico gli “onorevoli”. Ma nessuno può abbandonare il convento-bunker.
Tutti pensano al presidente, nascostosi nella catacomba. Lui ha trovato la linea logica che sta guidando l’assassino a eliminare gli illustri politici: le innumerevoli sigle delle società o istituti di cui sono a capo che compongono l’espressione ignaziana: “Todo modo para buscar la voluntad divina”. Ma la fine è più apocalittica delle parole di Ezechiele che si sentono dall’interfono della casa.


Todo modo
Film claustrofobico, kafkiano, con le scenografie spoglie e inquietanti di Dante Ferretti, la musica ossessivamente bitonale e ansiogena di Ennio Morricone, la fotografia “espressionista” di Luigi Kuveiller. Le riprese e i movimenti di macchina prediligono i primi o primissimi piani, i dettagli, e manifestano la volontà di seguire l’azione dei personaggi dando allo spettatore un posto di “partecipazione” privilegiato. Telecamere e schermi ovunque conformi alla tradizione del Big Brother di Orwell. E gli specchi che esaltano i protagonisti nell’esercizio funzionale dei simulacri di Baudrillard, nel tentativo di definire la propria immagine pubblica e privata.
La sceneggiatura dello stesso Petri richiama le atmosfere buñueliane de L’angelo sterminatore, ravvisabile nella persona dell’assistente del presidente, un silenzioso e ambiguo Franco Citti. Memorabili e ispirate le interpretazioni di Gian Maria Volonté e Marcello Mastroianni. Nell’opera di Petri risalta la tessitura dei dialoghi costruiti per far emergere, tra le pantomime spesso manierate ed esagerate al limite della parodia, i richiami morali (e mai moralistici) di Pier Paolo Pasolini ai politici dell’epoca. L’intellettuale e regista, però, aveva suo malgrado appena abbandonato, precocemente e violentemente, la scena politica e culturale italiana.