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The Room Next Door
Finalmente un riconoscimento con il massimo premio di un Festival del cinema: la Mostra del Cinema di Venezia, quello con cui Pedro Almodóvar ha iniziato la sua carriera di regista “terrible” che aveva accolto in concorso il suo trasgressivo L’indiscreto fascino del peccato (1983), nonostante la Democrazia Cristiana (come ebbe a dichiarare lui stesso); che gli consentì di essere conosciuto internazionalmente con Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988); che gli ha assegnato un Leone alla carriera (2019); e che oggi lo consacra con il Leone d’oro per il suo The Room Next Door (2024). Il regista premio Oscar per Tutto su mia madre aggiunge al suo palmares l’onorificenza più alta data per la prima volta da uno dei due più antichi e prestigiosi festival di arte cinematografica (Cannes oltre a Venezia).
E finalmente un film che rappresenta il passaggio dal glocalismo all’internazionalità; che aveva bisogno di due muse ispiratrici cosmopolite dalla straordinaria bellezza iconica e simbolica come nessuna altra delle chicas Almodóvar (anche se tutte straordinarie) aveva saputo dare. Ormai quelle “ragazze” sono diventate “signore” dall’eleganza drammatica sirkiana, dall’intensità espressiva bergmaniana, e i volti energici di Tilda Swinton e Julianne Moore non potevano che assicurare e valorizzare tutto ciò, e dare senso migliore alla storia di amicizia e compassione narrata nel film con la loro intensa espressività.
Raimunda e Agustina di Volver sono cresciute e non hanno più paura della morte . L’ultimo tabù è stato superato. La solidarietà, che tanto ha accomunato la sorellanza e la femminilità raccontate con stile personale da Almodóvar diventando una sua “cifra”, ha avuto la sua parte decisiva. Ingrid, interpretata da Julianne Moore, può scrivere diversamente della morte. E Pedro, le cui personali angosce sono state personificate dalla protagonista del film, ha maturato il senso della morte oltrepassando la linea della paura di morire, e scoprendo che solo l’amore, nella varietà delle sue manifestazioni più autentiche, che contemplano anche l’amicizia, è il farmaco che può far accettare il tormento della “porta accanto” definitiva.
La vicenda, scritta con la magistrale capacità narrativa che il cineasta spagnolo ha sempre impiegato per le sceneggiature di tutti i suoi film (quasi sempre in esclusiva, anche quelli che prendono spunto da opere letterarie altrui) è ispirata dal romanzo What Are You Going Through di Sigrid Nunez. I titoli dell’opera cinematografica e di quella letteraria convergono in questa linea interpretativa dell’ultimo evento che sopravviene nella vita di ogni essere umano.
La morte aveva attraversato come filo rosso molti film del regista spagnolo, da Matador a Dolor y gloria passando attraverso capolavori come Lègami!, Tutto su mia madre, Parla con lei, Gli abbracci spezzati, Julieta, e soprattutto Volver. Proprio in occasione di quel film (di cui ricordiamo l’eccezionale scena della pulizia delle tombe) il regista ne aveva affermato la sua reiterata non accettazione dichiarando l’incomprensione e la rabbia, così come Judith che ne ha fatto argomento principale del suo ultimo libro. Almodóvar lo fa allo stesso modo in cui ha sempre rigettato umanamente il senso del dolore e della malattia che inesorabilmente avevano toccato la sua vita e quella delle persone a lui care.
Nel suo ultimo film l’autore affronta tutto questo di petto con una ponderata riflessione sull’eutanasia, tema che suscita ancora oggi aspri dibattiti tra posizioni divergenti, e che solo in pochi paesi del mondo ha trovato un non sempre facile riconoscimento. Il film si propone come una profonda riflessione etica sul “fine vita” e vuole contribuire al superamento del conflitto di parti spesso condizionate da tradizioni e scelte politiche che non sempre, come si pensa e si vuole far pensare, hanno a che fare con la religione.
Ad ogni modo, ciò che conta, e ha valore, è la sollecitazione che Almodóvar ha voluto riproporre per risvegliare il dibattito su un tema dai riverberi dolorosi che richiama la coscienza del valore della vita, dal suo nascere al suo termine. Il dibattito, proprio perché riguarda l’uomo nei suoi più profondi sentimenti, non può essere affrontato con deleteria superficialità, né tantomeno liquidato con altrettanto dannosa determinazione. A vincere deve sempre essere l’umanità. La provocazione del regista spagnolo non ha più i toni grotteschi e kitsch dei suoi film passati (a parte il “siparietto funzionale” della coppia dei due missionari omosessuali), ma è stupendamente maturata e richiede un altrettanto maturo confronto fondato sulla convinzione del valore della vita e della dignità di ogni essere vivente.
A tale proposito, risulta ancora una volta terapeutica la parola. Il regista ci aveva dato dimostrazione della qualità “benefica” della parola (Parla con lei soprattutto, ma non solo). Le parole quando usate con volontà di bene e di “incontro” non possono che portare il “miracolo” dell’amicizia e della solidarietà, della prossimità e della disponibilità. Miracoli che si realizzano nel film e che danno un valore aggiunto alla storia di Martha e Judith (che coraggio raccontare la storia di amicizia di due donne mature!). Il cenno che nel film si fa alla pandemia, e all’isolamento forzato, dimostra come il blackout della parola e della relazione può avere delle conseguenze disastrose e può provocare danni irreparabili, o rilevare possibilità perdute.
Il film “inglese” di Pedro Almodóvar, nonostante l’istanza politica di fondo che propone, è un film commovente che celebra la bellezza della vita umana con i suoi drammi e le sue speranze, le sue gioie e le sue fragilità; di una umanità realizzata quando a prevalere è il bene dell’altro e non il proprio interesse, personale o collettivo o fanatico che sia. Un’opera che, per citare il cardinale Zuppi, “mette al centro la persona e le sue domande”.