PHOTO
Parasite di Bong Joon-ho
In fondo è già tutto in una scena del primo film di Bong, Can che abbaia non morde (2000). Il protagonista è un giovane dottorando tormentato dal proprio scarso status sociale (una delle ossessioni del regista), che dà la caccia ai cani del condominio nel tentativo di far smettere i versi che sente attraverso i muri. A un certo punto un inquilino gli racconta la leggenda di "boiler Kim", tecnico delle caldaie murato nell'edificio dopo essersi accorto che la struttura - frutto del boom dell'edilizia di fine anni '80 - era fatta con materiali scadenti, e la cui voce da allora riecheggia nel condominio.
Quest'immagine da racconto gotico (impossibile non pensare a Il gatto nero) - quella di una presenza invisibile che si annida, perturbandolo, nelle oscure segrete del consesso sociale, è un topos che nel cinema di Bong – dal 6 marzo nelle sale con il nuovo Mickey 17 – ricorre in varie forme: un uomo che esce dal sottosuolo per ghermire giovani studentesse (Memories of Murder); un mostro in agguato nelle fogne di Seoul (The Host); un'umanità derelitta che striscia dalla sua tana negli ultimi vagoni verso la luce della locomotiva (Snowpiercer); una famiglia che spia il mondo attraverso la finestra di un seminterrato; un marito nascosto nella cantina di una villa benestante (Parasite).
Come gli scarafaggi di casa Chung i personaggi di Bong scorrazzano fuori col favore delle tenebre, esplorando nuove possibilità di vita o semplicemente "tormentando" (haunting) l'apparente equilibrio del reale; svelando con la loro presenza come dietro la sua luce (i campi di grano, i vagoni di testa, la trasparenza di una villa tutta fatta di vetro) si celi un fondo oscuro. Non a caso viene a tratti spontaneo leggere i film del sudcoreano come un vero e proprio catalogo visivo della cunicolarità: un'intricata topografia di pozzi, fogne, scantinati, gallerie, cubicoli, orifizi umani e oscuri letti di fiumi, dove lo sguardo smarrisce e da dove, reciprocamente, qualcosa si affaccia a guardare.
È proprio l'intercapedine percettiva ingenerata da questi motivi, sulla cui vaghezza Bong può rilanciare all'infinito, a rendere il suo cinema una macchina allegorica così potente, capace di scoperchiare i rimossi della storia e della società coreana; una ricognizione che parte ovviamente dalla dimensione classista, rispetto a cui quest'approccio da entomologo gli ha consentito alcune delle messe in scena più antiretoriche e felicemente stilizzate degli ultimi anni.


Bong Joon-ho - Foto Karen Di Paola
Attraverso i buchi neri di Bong si spiano, si temono, si desiderano e repellono upper class e proletariato. Sempre a debita distanza dai suoi eroi, insetti combattenti in un mondo ridotto a diorama, il regista costruisce racconti dal carattere pulsionale, dove l'azione si sviluppa vettorialmente alla funzione-sguardo. Non c'è elaborazione politica - solo raramente coscienza di classe; al loro posto c'è il desiderio grezzo e animalesco di andare dal punto A al punto B: dal buio verso la luce, dal freddo verso il caldo, da una condizione peggiore verso una migliore. Come enunciato in Il silenzio degli innocenti (1991), riferimento imprescindibile di tutta la sua produzione, "desideriamo ciò che vediamo". Ed è a partire da questo che sogniamo la nostra metamorfosi.
Basta spostare i termini del discorso per accorgersi di come quella classista non sia l'unica lettura cui invitano le metafore di Bong. Sempre giocando sulla dialettica fra mondo emerso e le sue feritoie, il sudcoreano riesce con mezzi visivi a evocare la permanenza nel presente di aspetti traumatici e irrisolti della storia nazionale. Già ai tempi di The Host (2006) la critica aveva notato come dietro la superficie da monster movie si nascondesse una sorta di mega-allegoria, dove sullo schermo passava mezza storia recente della Corea del Sud.
Allo stesso modo è significativa l'insistenza con cui Bong è tornato nei suoi film a riflettere sul biennio 1987-88, quello che storicamente segna la cesura fra il conseguimento della democrazia e il precedente lungo periodo di regimi autoritari a sfondo militare; fase rispetto a cui la narrazione "cunicolare" di un film come Memories of Murder si poneva come una sorta di interrogazione ex post, evocando la violenza poliziesca degli anni '80 come un rimosso che non muore (simboleggiato da un caso di omicidio mai risolto), e che nello straordinario finale ancora ci ri-guarda attraverso un sottopassaggio buio.


Snowpiercer
D'altra parte, come osserva acutamente Andrea Pedrazzi in relazione a Parasite, quello tra "superficie emersa e profondità nascoste" è anche un dualismo interno allo stesso stile di Bong. Virtuoso della messa in scena tra i massimi in attività, nel corso della sua carriera il regista si è divertito a giocare con generi e toni del racconto, ibridando goliardicamente thriller, horror e commedia surreale, e nascondendo spesso i suoi colpi più feroci dietro un'apparenza gioviale; chi ricorda la facilità con cui i simpatici poliziotti di Memories of Murder si trasformavano in picchiatori o scene come quella del vagone-scuola in Snowpiercer sa benissimo che il mondo di Bong non rivela sempre subito il suo nucleo profondo di bestialità. È una lezione a guardare oltre la superficie: cercando l'ospite nascosto in bella vista.