PHOTO
Ben Whishaw in Io non sono qui
Siamo nel 1973. Sam Peckinpah gira Pat Garrett e Billy Kid, con James Coburn e Kris Kristofferson. Bob Dylan nel film (oltre a cantare Knockin’ on Heaven’s Door) interpreta Alias, un giovane che si confronta con la leggenda. “Chi sei?”, gli domanda Pat Garrett, “Questa è una bella domanda”, risponde Alias.
È qui nasce il vero dilemma: chi è Bob Dylan? Lui sostiene: “Sono Bob Dylan soltanto quando devo esserlo, il resto del tempo sono me stesso”. Sembra che anche lui non riesca o non voglia definirsi. E forse neppure il cinema è in grado di catturare la sua essenza. Lo ha capito Todd Haynes nel suo Io non sono qui, del 2007, quando per vestire i panni di Dylan ha chiamato a raccolta sei attori diversi che si alternano sullo schermo, tra cui anche Cate Blanchett. Ognuno di loro rappresenta una diversa fase della sua vita, dagli inizi come cantante folk, al successo, al controverso passaggio al rock, al suo temporaneo ritiro dalle scene, fino all’ultima parte della sua carriera.
Sono una dozzina i film che parlano di Bob Dylan. Tre portano la firma di Martin Scorsese: L'ultimo valzer (The Last Waltz) del 1979, su un famoso concerto del 1978, No Direction Home: Bob Dylan del 2005, che ripercorre il periodo di transizione da cantante folk a stella del rock e Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story del 2019, che chiude la trilogia. Maestro delle note, regista, attore: Dylan entra nel cinema in tutti i ruoli.
Come da lui stesso raccontato, già nel 1966 accarezzava il sogno di fare un film, rimasto nel cassetto per una decina di anni, fino a quando decide di raccogliere i fondi per autofinanziarsi. È così che nel 1978 esce Renaldo e Clara prodotto e diretto da Dylan, un collage tra documentario e finzione. È un racconto in parte personale in cui i protagonisti sono lo stesso Dylan, la sua prima moglie Sara, e Joan Baez, la sua passione più tormentata, su cui lei ha composto la splendida Diamonds & Rust.
La connessione più stretta tra il grande schermo e la musica di Dylan è il bellissimo brano Hurricane, pubblicato prima come singolo e poi nell’album Desire del 1976, contenuto poi in Hurricane – Il grido dell'innocenza di Norman Jewison del 1999. Raccontiamo la storia. È il 1966 e il pugile di colore Rubin Carter viene arrestato per un triplice omicidio. Si proclama da subito innocente, ma viene condannato. Sconta diciannove anni di carcere, prima di essere scagionato per non aver ricevuto un processo equo.
Nel 1975 Carter manda a Dylan una copia della sua autobiografia, consapevole della sua sensibilità per i diritti civili. Dylan va a trovarlo in carcere, appoggia l’innocenza dell’atleta, e scrive Hurricane. La prima stesura è censurata dalla casa discografica per la presenza dei nomi dei diretti interessati. Dylan incide una seconda versione “corretta”, e la canta nel concerto di beneficenza al Madison Square Garden, dove raccoglie 100mila dollari che devolve ai legali di Carter, per la revisione del processo. Il testo è scritto come una sceneggiatura e nel 1999 Hollywood raccoglie il testimone con Hurricane – Il grido dell'innocenza con Denzel Washington.
Le mille sfaccettature di Bob Dylan continuano a esistere attraverso la macchina da presa di James Mangold in A Complete Unknown con Timothée Chalamet. Ma la verità, come aveva capito Haynes, è che Dylan non può essere catturato dalla cinepresa. È sfuggente, geniale, iracondo: è tutti e nessuno. Allo stesso tempo è un eroe e un cattivo (non ha ritirato il Premio Nobel), un mito e un fantasma, un paladino degli indifesi e un uomo nell’ombra. E proprio per questo è cinema.
Può incarnare tutti i personaggi della storia (in Ore contate di Dennis Hopper era uno scultore armato di sega elettrica), essere un divo, proclamarsi campione e alla fine scoprirsi sconfitto. Ma le vibrazioni della sua armonica sopravviveranno a ogni apocalisse, a ogni cambiamento (The Times They Are A-Changin) e a ogni grido malinconico di un’esistenza che rotola via senza accorgersene (Like A Rolling Stone).