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The Beast
Le prime immagini di The Beast (2024) di Bertrand Bonello ricordano quelle di uno dei suoi primi film, Tiresia (2003). Il punto di vista scelto dall’inquadratura trasforma lo schermo in una massa viva e indistinta, quasi magmatica: la scala e la prospettiva si dissolvono in un insieme di visioni di caos totale – lo stesso caos o quella “catastrofe” di cui più volte si fa profetica portavoce Lea Seydoux in The Beast: la materia viva esplode, sollevandosi per lasciare che fluiscano, non nei film ma nella mente dello spettatore, questa volta, pietre laviche e schermi rifrangenti, in una strana ma appropriata giustapposizione di sensazioni. Perché il cinema di Bonello è (prima di tutto) un cinema dei sensi.
Tutto parte dal corpo, o meglio dai corpi, perché ce ne sono sempre molteplici: da quello corpo dimidiato, carnale e plastico e quello-copia, o fantomatico, che si riassembla nel corso del tempo. In Tiresia questa ricostruzione avviene tramite la conoscenza di sé nell’altra persona, seppure dilaniata dall’ossessione e dal ritorno - però tanto agognato – dell'identico; in Nocturama (2016) invece, assistiamo a una contaminazione di idee nello stesso tempo incandescente e apatica, quasi fossero quegli stessi ragazzi rivoltosi i cattivi da combattere.
È stata più volte sottolineata l’ambiguità di questi personaggi che vogliono attirare l’attenzione su ciò che richiedono (un futuro) e la critica ha insistito su come agiscano alla stregua degli zombi romeriani, indossando le vesti del consumismo più avanzato, o quanto il film rievochi i tragici attentati terroristici parigini di quasi dieci anni fa. Non c’è una spiegazione chiara. In Zombi Child (2019) il corpo e l’identità sono quelle sommerse e frantumate dello schiavismo che qui il cineasta francese rievoca con la lente deformante del genere horror, distanziandosi dal canone, però, con una rappresentazione estetizzante e ispirata che dialoga perfettamente con le immagini sospese di Atlantique (2019) di Mati Diop.
Ma torniamo all’inizio della carriera di Bonello, che pure parte dal corpo, per poi riprendere da dove avevamo cominciato, dal corpo intergalattico di Lea Seydoux in The Beast. Sia nel caso di Il pornografo (2001) che di L’Apollonide (2003) la necessità è di affrontare il corpo sullo schermo in modo sensuale e viscerale: da questa rappresentazione Bonello fa emergere le scompostezze, i volti spezzati, corpi esteticamente non compatti, solidi delle sex workers in L’Apollonide; le cose meno belle e appaganti del sesso e di quando lo si performa, come quando in Il pornografo Jean Pierre Léaud e Thibault de Montalembert guardano lo svolgersi di un orgasmo che sembra non arrivare mai – e che il regista vuole sia “reale”.
Un simile senso di incompiuto si avverte in The Beast. Il corpo di Seydoux combatte tra le epoche e vite passate – e future – con gli effetti dell’esilio e dell’isolamento indotti da un’intelligenza artificiale che intende azzerare l’emotività. Con l’intento di recuperare un amore perduto, il film evoca un universo liminale, un mondo inquieto e vacuo e permeato di angoscia, così come di violenza, dove probabilmente proprio per l’amore non ci sarà più spazio.