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Jamie Lee Curtis e Michelle Yeoh in Everything Everywhere All at Once (credits: Allyson Riggs)
Tutto inizia nel 2015 e con l’hashtag #OscarSoWhite, una forma di protesta che segnalava come quell’anno, tra i venti candidati nelle categorie destinate agli attori, non ci fosse neanche un interprete di colore. Nel 2016, la situazione si ripete e, a quel punto, l’Academy capisce di dover cambiare.
Una decisione storica, perché non c’è dubbio che alcuni vincitori e candidati siano frutto dell’allargamento dei giurati, passati da meno di 6.000 membri nel 2012 ai quasi 10.000 attuali. Non è solo una questione numerica, perché l’allargamento ha diversificato la “popolazione”, che prima in larga parte era costituita da uomini bianchi americani di età avanzata, ampliando quindi l’influenza di chi vede, realizza e promuove un altro tipo di cinema. Questo ha permesso anche a tante realtà produttive e distributive in tutto il mondo di emergere e conquistare dei successi prima impensabili.
Il caso più clamoroso è stato quello di Parasite. Prima, nessun film in lingua non inglese si era mai aggiudicato la massima statuetta, così come nessuna pellicola vincitrice della Palma d’Oro a Cannes aveva conquistato questo obiettivo. Questa straordinaria sorpresa ha permesso al distributore Neon di ottenere un risultato senza precedenti, non solo conquistando tanti riconoscimenti negli Stati Uniti, ma anche incassando una cifra notevole, 53 milioni di dollari, uno dei maggiori risultati di sempre per una pellicola in lingua non inglese negli Stati Uniti (nel mondo, stiamo parlando di 262 milioni complessivi).
Neon, peraltro, ha distribuito quest’anno anche Triangle of Sadness di Ruben Östlund, in grado di conquistare una candidatura come miglior regista, risultato raro per realizzatori extra-statunitensi. A produrre questo film, c’è una realtà come Imperative Entertainment, impegnata nel nuovo film di Scorsese con Leonardo DiCaprio, Killers of the Flower Moon, e nel recente titolo passato al Sundance, Cat Person.
A proposito di registi, dietro Parasite c’era anche la Bitters End, che ha prodotto Drive My Car di Ryûsuke Hamaguchi, in grado di ottenere nomination per il miglior film e il suo realizzatore, vincendo l’Oscar per il miglior film internazionale.
Il fenomeno “asiatico” è anche al centro degli Oscar di quest’anno e ha alle spalle una società che ormai è diventata di culto, la A24, in grado di ottenere incassi importanti con i suoi prodotti (sempre con budget adeguati e ragionevoli) e che è esplosa grazie a Everything Everywhere All at Once. Il film è stato lanciato benissimo negli Stati Uniti, risultando una sorta di alternativa al Multiverso della Marvel e conquistando più di 70 milioni di dollari in patria.
Quello che è attualmente il favorito nella corsa all’Oscar, è solo la punta di diamante di una società che era dietro anche a un altro titolo che era andato benissimo agli Academy Award due anni fa, Minari, in grado di ottenere sei nomination pesanti (tra cui film e regia) e aggiudicarsi il premio per la miglior attrice non protagonista, Youn Yuh-jung. Inoltre, A24 ha lavorato su Moonlight (miglior film agli Oscar 2017, l’anno dello scambio di buste con La La Land) e a The Whale, che ha come attore protagonista il favorito per la statuetta di quest’anno, Brendan Fraser.
Ma pensiamo anche a una realtà come Blumhouse. Nota per i suoi horror e thriller a basso costo, con un modello di business in cui anche le star accettano di partecipare con paghe minime e condividendo poi i profitti, con Scappa – Get Out è riuscita a ottenere anche il consenso dell’Academy, che ha portato a quattro candidature (tra queste, film e regia) e alla vittoria della statuetta per la miglior sceneggiatura originale.
Ma a beneficiare della maggiore apertura a storie e protagonisti variegati, non ci sono solo piccole società indipendenti. Pensiamo per esempio alla Marvel, che, senza l’allargamento della platea di giurati, difficilmente avrebbe visto il primo Black Panther essere candidato come miglior film. E ora Angela Bassett è anche la favorita per la statuetta come miglior attrice non protagonista nel sequel di quella pellicola.
A livello italiano, doveroso segnalare la Frenesy Film di Luca Guadagnino e Marco Morabito, e il grande successo ottenuto con Chiamami col tuo nome, candidato a quattro Oscar (compreso quello per il miglior film), con la vittoria per la miglior sceneggiatura non originale di James Ivory. Insomma, un’ennesima dimostrazione che una maggiore diversificazione può essere utile a tutto il mondo.