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Walter Chiari in Era lui, sì, sì!
“Walter aveva il cinema in mano, dal ’46 al ’54: poi se l’è lasciato scappare” sosteneva Alberto Sordi, almeno a detta di Tatti Sanguineti, l’esegeta più appassionato di Walter Chiari nonché autore di uno dei due libri fondamentali per capire su Sordi, Il cervello di Alberto Sordi dedicato a Rodolfo Sonego (l’altro è quello scritto da Goffredo Fofi).
Walter Chiari al secolo Annicchiarico era veneto come Sonego ma di origini pugliesi, figlio di un brigadiere e di una maestra, e prima della guerra aveva fatto molti sport: campione dei pesi piuma nel pugilato e di bocce (abbandonate perché si fratturò le mani sul ring), buon giocatore di tennis, nuotatore provetto. Il fisico atletico gli torna utile quando approda al teatro di rivista, poco più che ventenne, dopo un controverso impegno dalla parte del fascismo morente (fu un ragazzo di Salò, come Vianello, Tognazzi, Fo, Mazzantini): un corpo messo alla prova della performance, la capacità di occupare il palco e di attrarre i riflettori, l’inedito connubio tra prestanza e comicità.
Sordi, un genio che prima di trionfare al cinema ha faticato tantissimo, aveva ragione: nell’immediato dopoguerra, tra un Totò in cerca di collocazione, un Macario al tramonto e uno stuolo di comici regionali, Walter Chiari aveva il cinema italiano in pugno. Perché rappresentava davvero qualcosa di nuovo, un tipo all’americana: il comico bello. La parlantina veloce, il volto pulito, lo sguardo beffardo, l’andatura buffa, lo spirito nonsense. Per un po’ ha funzionato, tra il 1948 e il 1954 apparve in oltre trenta film, ma, pensateci un attimo, a differenza dei suoi colleghi coetanei o più grandi, è difficile associarlo a un titolo diventato longseller, a una scena entrata nell’immaginario, a un percorso definito nel cinema di quel periodo.
Gli è andata meglio con la televisione, negli anni del boom economico, con la gag del Sarchiapone, mentre lo schermo più grande lo trascurava sempre di più. Perché? Probabilmente non aveva la disciplina di Sordi, l’ostinazione di Manfredi, la morbidezza di Tognazzi, il cinismo di Vianello. Forse, per certi versi, il fuoco sacro l’ha addomesticato con il mestiere, e forse preferiva una vita al massimo, gli amori tempestosi da copertina e gli eccessi nei quali è spesso inciampato.
È morto relativamente presto, a 67 anni, mentre conosceva una fase nuova della carriera, sotto le stelle di una malinconia gentile, mentre veniva riscoperto dai giovani registi di allora. A cento anni dalla nascita – nacque l’8 marzo 1924: il giorno delle donne per un uomo che ha amato moltissimo le donne, ricambiato – ci resta uno sterminato corpus di film: ne ricordiamo dieci, per riscoprire un attore ancora sorprendente.
1. Quel fantasma di mio marito
di Camillo Mastrocinque (1950)
Ritenuto disperso per decenni e infine riemerso e riportato all’antico – forse mai del tutto goduto – splendore, è una commedia stratificata e poco italiana. Una sofisticata, elegante e surreale screwball che guarda a René Clair, storia di una finta morte, architettata da una coppia piccolo-borghese per ottenere benefici professionali e sociali. Le geometrie moderniste costruiscono lo spazio per dare al finto fantasy uno spirito fatato, in equilibrio tra esotismi da fumetto e benessere industriale. Chiari, giovane e bello, già bravissimo ma doppiatissimo.
2. Bellissima
di Luchino Visconti (1951)
Sulla carta, il ruolo della svolta. Diretto da un maestro del neorealismo, affianca la matrona del cinema italiano interpretando un personaggio bieco ma memorabile: un affascinante cialtrone che si spaccia collaboratore di Alessandro Blasetti, approfitta dei sogni altrui, promette entrature nel mondo del cinema seduce la protagonista si fa dare cinquantamila lire e sparisce. La quintessenza del traffichino del dopoguerra (e non solo): un povero diavolo spregiudicato e arraffone che esplora il lato oscuro della maschera di Chiari. Sul set, si dice, ci fu un flirt con con Anna Magnani.
3. Lo sai che i papaveri
di Metz e Marchesi (1952)
A partire dalla hit sanremese Papaveri e papere di Nilla Pizzi, satira sul potere democristiano, una strepitosa parodia di Dottor Jekyll e Mr. Hyde. Chiari è un povero diavolo che, a sua insaputa, conduce una doppia vita: di giorno è Gualtiero, irreprensibile professore di latino e greco, di notte diventa Walter, un mondano che salta da un night all’altro. Vianello fa lo psicanalista (o una sua parodia, siamo sul filo) e spiega il conflitto tra realtà ordinaria e sogno anarchico: una follia in cui il moralismo alla luce del sole e l’erotismo alberga nella fuga onirica.
4. Noi due soli
di Marino Girolami (1952)
Ancora un’evasione dalla realtà: che Chiari, scatenato e irriverente, con la sua aria svagata e i movimenti da cartone animato, sia l’attore perfetto per queste commedie metafisiche? In una Roma deserta e post-atomica, un operaio insofferente e vessato sogna di rimanere solo con la fidanzata e l’amico del cuore (Carlo Campanini, storico partner in crime), ma l’idillio si trasforma in incubo. Tra farsa sociale e satira contro il potere democristiano, una commedia fantascientifica se non proprio distopica: il cinema italiano degli anni Cinquanta era un’avventura.
5. Io piaccio
di Giorgio Bianchi (1955)
Ancora una commedia anticonvenzionale (la sceneggiatura è sempre di Metz e Marchesi): un dottorino ingerisce un preparato ormale che dovrebbe infondere il coraggio ma si rivela, nei fatti, un formidabile attrattore per le donne. A essere onesti, è un calco meno sofisticato e raffinato del Magnifico scherzo di Hawks (l’ipotesi di Chiari come Cary Grant nostrano è estemporanea ma non assurda), ma la pochade è piena di trovate divertenti, gag irresistibili e comprimari di lusso (Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Sandra Mondaini, Tina Pica).
6. Un mandarino per Teo
di Mario Mattoli (1960)
Versione per il grande schermo della commedia di Garinei e Giovannini, una fantasia musicale che sottolinea la versatilità dell’attore, qui comparsa che accetta l’assurda proposta di premere un campanello causando la morte istantanea di un mandarino cinese, da cui ereditare un miliardo di lire. Il patto col diavolo di Faust secondo lo spirito del Sistina, formato cinematografico: Hollywood ne avrebbe fatto un musical rutilante e fastoso, Cinecittà si è limitata a tradurre senza troppe intuizioni (ma che piacere questo cinema oggi inconcepibile).
7. La rimpatriata
di Damiano Damiani (1963)
Il capolavoro di Damiani: due quasi quarantenni si ritrovano per caso e decidono di rintracciare gli altri tre amici di un tempo. “Nessuno deve restare solo stanotte, domani è la fine del mondo”: cinque vampiri in un notturno milanese malinconico, cupo, dove trionfano la disperazione, il vitellonismo, le contraddizioni della borghesia, il bisogno di non restare soli, la fine del miracolo (economico), lo svelamento delle doppiezze, la messa a nudo di presunti spacconi che si rivelano codardi, inetti e falliti, la paura della morte.
8. Il giovedì
di Dino Risi (1964)
Quasi un autoritratto del regista: un padre assente e scansafatiche rivede il figlioletto dopo cinque anni, cerca di farsi bello ai suoi occhi ma il bimbo è abbastanza intelligente per capire che dietro la sbruffoneria c’è solo tanta insicurezza. E tanta solitudine. L’allegria si consuma nella tristezza, la dolcezza decanta nell’amaro, l’estate annuncia la fine di qualcosa. Nelle mani di Risi (altro settentrionale, il che non è un dettaglio), il miglior Chiari di sempre: un fallito inquieto, una simpatica canaglia, un gradasso da guardare con affetto.
9. Io, io, io... e gli altri
di Alessandro Blasetti (1966)
Quindici anni dopo Bellissima, Chiari diventa alter ego di quel Blasetti di cui si millantava collaboratore. Film a suo modo corsaro, segue l’inchiesta che un giornalista conduce sul tema dell’egoismo: un lavoro che si rivela una percorso di autocoscienza e, di riflesso, un atto d’accusa, tra ricordi e incontri che danno una nuova prospettiva alla vita. La malinconia di Chiari, nel pieno di una maturità mai del tutto valorizzata, al servizio di una satira acuta, popolata di star in gloria del maestro dietro la macchina da presa (Mastroianni, Mangano, Lollobrigida, De Sica, Manfredi...).
10. Romance
di Massimo Mazzucco (1986)
In un’opera seconda indie e dimenticata, il penultimo ruolo dell’istrione: un padre trasandato e malconcio che cerca di recuperare il rapporto con il figlio (Luca Barbareschi, che nel 2012 ha prodotto il biopic Fino all’ultima risata con Alessio Boni). Quasi un aggiornamento, più cupo e amaro, del Giovedì. Una lezione di recitazione, ora in sottrazione ora sopra le righe, un testamento (involontario) che illumina l’ultima fase di una carriera cinematografica discontinua. A Venezia qualcuno gli fece credere che aveva vinto la Coppa Volpi: andò a Carlo Delle Piane e lui ci restò di sasso.