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Preparate i fazzoletti
Per il suo particolare sistema di selezione, quella del miglior film internazionale (miglior film in lingua straniera fino al 2020) è una delle categorie più selettive (ha ancora senso che ogni Paese indichi un solo film?) e discutibili (ha ancora senso un premio del genere in un’epoca così globalizzata?) e in alcune occasioni i suoi vincitori sono caduti nell’oblio. Perciò, nell’attesa di capire chi sarà l’erede di Drive my Car (Niente di nuovo sul fronte occidentale sembra il più quotato), vi proponiamo dieci film da recuperare.
Le mura di Malapaga di René Clément (Francia/Italia)
Vincitore dell’Oscar onorario nel 1951
Assolutamente da riscoprire questo romantico e disperato mélo franco-italiano che, mettendo insieme una (ex) diva internazionale (Isa Miranda) e un attore che incarna l’idea stessa di una nazione (Jean Gabin), propone l’alleanza tra due scuole cinematografiche. Dentro ci sono il gusto prevértiano e il bozzetto nostrano, l’atmosfera umida e malinconica del realismo poetico, con l’universo portuale abitato da uomini sconfitti e segnati dalla vita, e la capacità di trasformare in personaggio il paesaggio genovese, spingendo abilmente la temperie neorealista verso espliciti orizzonti spettacolari e offrendo un inedito incrocio mediterraneo tra l’Africa bianca, Napoli, Marsiglia e il Portogallo.
La porta dell’inferno di Teinosuke Kinugasa (Giappone)
Vincitore dell’Oscar onorario nel 1955
Già premiato a Cannes dalla giuria presieduta da Jean Cocteau, prima esperienza con il colore di un regista famoso soprattutto per i muti d’avanguardia, è un melodramma incandescente sull’etica del guerriero che s’incontra con la storia di un’ossessione, sull’espiazione e sulle conseguenze dell’amore. Lucidamente popolare, consapevole del suo carattere sperimentale nell’aderire al patrimonio figurativo del passato con gli strumenti della contemporaneità, quasi un lavoro teorico su come il colore possa essere referente di passioni che bruciano, malinconie virate in turchese, vestiti che fasciano i corpi svelando molto delle anime. Vinse anche l’Oscar per i costumi.
Orfeo negro di Marcel Camus (Francia)
Vincitore nel 1960
Palma d’Oro a Cannes nell’anno de I quattrocento colpi e Hiroshima mon amour, Golden Globe superando Il posto delle fragole, Oscar ai danni de La grande guerra: all’epoca incantò mezzo mondo, eppure chi lo ricorda oggi? Dall’opera scritta da Vinícius de Moraes nel 1954 e musicata da Antônio Carlos Jobim nel 1956, il mito di Orfeo e Euridice incontra i colori, i suoni, i corpi del Carnevale di Rio de Janeiro, muovendosi tra commedia vitalistica e melodramma incandescente, al confine tra magia e realtà. Deprecato dagli intellettuali che stavano facendo nascere il Cinema Nôvo, oggi appare sì come una cartolina esotica ma anche una celebrazione della cultura popolare brasiliana.
Il negozio al corso di Ján Kadár e Elmar Klos (Cecoslovacchia)
Vincitore nel 1966
Uno dei film simbolo della Nová vlna cecoslovacca: in sapiente equilibrio tra la commedia degli equivoci e il dramma umano, la leggerezza canzonatoria tipica di quel movimento rivoluzionario dentro una tragedia collettiva capace di intercettare la commozione della platea internazionale, mette in scena la banalità del male durante la guerra e sotto il regime totalitario, l’incoscienza di vivere un pericolo imminente (l’anziana vedova ebrea Ida Kamińska, che un anno dopo fu candidata all’Oscar) in opposizione alla consapevolezza di dover combattere contro il pensiero dominante (i due giovani protagonisti). Con un finale al di là del reale che impressionò tutti.
Treni strettamente sorvegliati di Jiří Menzel (Cecoslovacchia)
Vincitore nel 1968
Debutto nel lungometraggio (a 28 anni) di un maestro della Nová vlna per la prima volta insieme allo scrittore e di lì in poi sodale Bohumil Hrabal, è tra i film fondanti del cinema giovane degli anni Sessanta. Pochi hanno raccontato in un modo così dirompente la Seconda guerra mondiale, rivendicando un elemento dell’identità nazionale (l’ironia) e trovando nell’allegoria la chiave di comprensione del reale: l’umorismo sardonico s’innesta nella tragedia circostante, la liberazione sessuale è l’arma contro il potere, la ricognizione del tragico passato nazista per mettere alla berlina il presente nell’orbita sovietica. E c’è uno dei baci mancati più struggenti della storia del cinema.
Preparate i fazzoletti di Bertrand Blier (Francia)
Vincitore nel 1979
Per gli americani fu un mezzo shock: una donna non riesce a farsi mettere incinta né dal marito né dell’amante, poi intreccia una relazione con un ragazzino. Oggi impensabile, all’epoca quel tipo di stravaganza grottesca che si chiedeva agli europei, in primis francesi (terza vittoria francofona consecutiva dopo Bianco e nero a colori e La vita davanti a sé, l’anno dopo l’Academy si infatuò de Il vizietto): ci furono polemiche per il tema controverso e l’oggettivizzazione sessuale di Carole Laure, ma anche ammirazione per la capacità di raccontare con spericolata leggerezza qualcosa di non convenzionale. Decisivo contributo di Gérard Depardieu e Patrick Dewaere, all’apice del fulgore.
Mosca non crede alle lacrime di Vladimir Men'šov (URSS)
Vincitore nel 1981
Orso d’Oro nel 1980, uno dei film di maggior successo nella storia sovietica. Si dice che il presidente americano Ronald Reagan l’avesse visto più volte per prepararsi agli incontri con Michail Gorbačëv, al fine di comprendere meglio l’anima del popolo russo. Prove di disgelo? Chissà, comunque grande cinema popolare: vent’anni di vita collettiva attraverso storie personali, che coglie nel quotidiano degli affetti la cifra di un’identità e il segno del tempo che scorre. Empatico, coinvolgente, divertente quanto emozionante, offrì agli occidentali la possibilità di riconoscersi in personaggi lontani solo geograficamente. Superò Kagemusha di Kurosawa e L’ultimo metrò di Truffaut.
La storia ufficiale di Luis Puenzo (Argentina)
Vincitore nel 1986
Primo latino-americano premiato nella categoria, ha un titolo che evoca la storia scritta dagli assassini e, quindi, di un’intera nazione attraversata dal sangue. Mentre si celebra il processo che mise alla sbarra la dittatura militare appena caduta (il soggetto di Argentina, 1985), questo film ne racconta l’ultima fase attraverso uno sconvolgente dramma privato (la moglie di un funzionario del regime ipotizza che la figlia, adottata illegalmente, possa essere nata da desaparecidos). Con la gigantesca Norma Aleandro, icona che fu esule in Uruguay e Spagna, un film che parla al futuro, doloroso e straziante senza esibire l’eccesso, popolare perché politico, e cerca di dare degna sepoltura ai cadaveri.
L’albero di Antonia di Marleen Gorris (Paesi Bassi)
Vincitore nel 1996
Non è solo il primo film diretto da una donna a trionfare nella categoria, ma (forse) anche il primo film femminista. Imprevedibilmente popolare, comprensibile a tutte le latitudini, mai settario né respingente, è un’epopea matriarcale che attraversa mezzo Novecento toccando i temi più disparati: l’evoluzione del villaggio rurale, la disabilità, l’amore tra donne, la solidarietà di genere, la vendetta, la ricerca della felicità. E lo fa unendo la fiaba e la storia, l’umorismo e il dramma, il sesso e la religione, la passione politica e il realismo magico, lo spirito filosofico e la densità romanzesca. Il premio del pubblico al Toronto Film Festival gli tirò la volata agli Oscar.
Departures di Yōjirō Takita (Giappone)
Vincitore nel 2010
Prima produzione giapponese a ottenere l’Oscar da quando la categoria è diventata competitiva, superò i più quotati Valzer con Bashir, La banda Baader Meinhof e La classe. A sorpresa, perché sulla carta niente poteva far presagire la vittoria: il tabù della morte (locale ma anche globale), il tema della tanatoprassi (l’arte della preparazione dei defunti, quindi l’elogio della cosmesi), il tocco delicato con cui affrontare l’elaborazione del lutto, la volontà di riflettere sul passaggio tra la vita e quello che c’è dopo. Come convinse i membri dell’Academy? Forse per l’impianto classico, l’andamento fluido, il fascino per la cultura orientale, il mistero della trascendenza.