Dopo The Stranger, un dramma sul sentirsi stranieri in patria girato sulle alture del Golan, nei territori occupati da Israele, e proposto dalla Palestina per l’Oscar al film internazionale, Ameer Fakher Eldin arriva in Concorso a Berlino 75 con Yunan (coproduzione tra Germania, Canada, Italia, Palestina, Qatar, Giordania, Arabia Saudita). In cui è impossibile non scorgere il riflesso di uno straniamento biografico, soprattutto negli eterni tempi di guerra e nella nuova ondata razzista europea.

Residente ad Amburgo (in quella Germania sempre più in preda alle pulsioni neonaziste), Eldin è nato in Ucraina, nel 1991, figlio di genitori siriani provenienti proprio dalle alture del Golan. Ma più delle corrispondenze personali c’è l’orizzonte di una storia dalle caratteristiche universali, incentrata sulla crisi di Munir, uno scrittore che cerca risposte cliniche a domande che affondano nel passato, torna costantemente a una parabola criptica tramandatagli dalla madre e non trova alternative alla fuga dalla città.

Si rifugia in una hallig, una piccola isola alluvionale, piatta, non protetta da dighe, nel Mare del Nord, a casa di una misteriosa signora e del suo rozzo figlio, nella speranza di trovare la serenità perduta. E mentre la natura fa il suo corso, con l’acqua che dilaga senza che gli abitanti si preoccupino più di tanto, ecco che piccoli gesti quotidiani, a volte contraddittori ma mai giudicanti, permettono un contatto fisico, una connessione emotiva, un riconoscersi nella speranza di un futuro migliore.

È un dramma severo e laconico, Yunan, che trova nella lentezza contemplativa la chiave d’accesso ai tormenti del protagonista, in una tessitura tra memoria e presente che affronta il trauma della non-appartenenza. Siriano che non è mai stato in Siria come lo stesso Eldin, Munir vive di ricordi che forse sono solo altrui, uno sfollato esistenziale che non sa dove mettere le radici, come dialogare con il prossimo e imparare a fidarsi.

Il paesaggio dell’hallig risulta così esplicitamente allegorico: ostile eppure accogliente, minaccioso ma caldo, lontano da casa e forse più simile a quel luogo mitico di quanto possa sembrare (non è bizzarro che la patria sia stata ricreata addirittura in Puglia: effetto della coproduzione ma anche segno quasi vertiginoso per definire la fluidità geografica).

Un film quasi testimoniale, che agisce dall’interno della questione, scandaglia l’angoscia nello sguardo del libanese Georges Khabbaz e trova nella grande Hanna Schygulla una figura votiva, simulacro della resistenza e anima di un mondo perduto. Ma, al netto dell’onestà e della profondità, sembra un film “da festival” forse troppo arroccato nel suo limbo, ridondante nel mettere insieme le due dimensioni e un po’ superficiale nella sua necessaria ma programmatica soluzione.