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We Live in Time
Arriva dal teatro, Nick Payne, lo sceneggiatore di We Live in Time – Tutto il tempo che abbiamo (nel curriculum anche L’altra metà della storia, adattamento del romanzo Il senso della fine di Julian Barnes: dato da ricordare), e sarebbe interessante vedere la sua storia sul palcoscenico. A volte sembra proprio una pièce in cui i protagonisti si muovono fluidamente nel tempo e nello spazio restando sempre di fronte ai nostri occhi, mettendo in scena lo scorrere del tempo non ricorrendo a trucchi posticci o rievocando le mode del momento ma affidando la credibilità alle parole che costruiscono mondi, ai gesti che evocano o meno consuetudini, agli sguardi che non dicono quel che possiamo capire da soli.
Ma Payne – che a teatro si è distinto con testi notevoli come Constellations, in cui la relazione tra due persone è riletta attraverso la teorica delle stringhe – ha scritto We Live in Time per il cinema e al cinema e a suoi mezzi offre totale fiducia. Un film sorprendente, diretto da John Crowley al suo apice, che elegge il montaggio a vero protagonista della storia. Quello che dapprima sembra un espediente estemporaneo, forse perfino controproducente per come rischia di confondere le carte, diventa, infatti, il valore aggiunto che garantisce un’incredibile fluidità.
We Live in Time (alla XIX Festa del Cinema di Roma dopo l’anteprima mondiale a Toronto; in Italia esce con Lucky Red e il sottotitolo Tutto il tempo che abbiamo) racconta l’amore tra Almut, una chef stellata abituata a primeggiare, e Tobias, che lavora per la Weetabix: li conosciamo che stanno già insieme da tempo, costretti ad affrontare la più crudele delle prove (niente spoiler: lei è malata di cancro), e poi li ritroviamo separati, l’uno a casa del padre in procinto di divorziare e l’altra presa dalle sue cose. E già un banco di prova per il pubblico e una dichiarazione d’intenti: l’andirivieni tra passato e presente è la regola, prendere o lasciare.
Più che i frammenti di un discorso amoroso, We Live in Time si edifica su un sistema di assonanze e corrispondenze, intrecciando i momenti cruciali di una coppia in maniera non cronologica ma sentimentale. Scene da un matrimonio pur senza il vincolo coniugale, è un melodramma in purezza che unisce la commedia romantica e il
cancer movi e, concedendosi il lusso di una lezione tanto risaputa quanto sempre dilaniante (meglio aggiungere vita ai giorni che giorni alla vita) perché all’altezza della complessità dei due protagonisti.Andrew Garfield (che Crowley fece debuttare in Boy-A) e Florence Pugh sono memorabili, non fosse altro per un’evidenza che affiora sempre in ogni scena: sanno che si mancheranno. È qualcosa di molto delicato e raro: sono tanti gli attori e le attrici che sanno incarnare l’attrazione erotica e il desiderio della convivenza, meno chi sa rappresentare l’amore sfidando l’eternità, sapendo di dover rinunciare al corpo altrui e di sopravvivere all’assenza.
Non è un caso che Garfield, meraviglioso nell’impaccio da fiero sad boy, sia un grafomane, tant’è che è una penna scarica a innescare l’incontro con Pugh: porta sempre con sé un taccuino su cui prende appunti su tutto ciò che non conosce nella speranza di poterlo dominare, pagine piene di dati e numeri che restituiscono il senso di una storia. E Pugh è clamorosa nel suo concedersi completamente al film, incinta o martoriata dalla chemio, competitiva o remissiva, orgogliosa o sarcastica, teorica della rottura delle uova e pattinatrice pronta a un’altra piroetta.
Forse il meccanismo dei salti temporali non aiuta un sottofinale che forse avrebbe meritato maggiori picchi emotivi, ma gli ultimi minuti sono dilanianti e ci sono scene che si incastonano nella memoria (la dichiarazione d’amore complice un fattorino della pizza, ma anche il tenerissimo passaggio in cui Tobias si fa radere dal padre).