The Florida Project (presentato prima alla Quinzaine e poi allo scorso festival di Torino) ci dice che Sean Baker ha un modo inquadrare il mondo tutto suo. Non apparentabile necessariamente con le nuove estetiche del realismo 2.0, caratterizzate dal movimento febbricitante di sempre più piccoli e maneggevoli dispositivi di ripresa. Il suo sguardo sull’infanzia – mentre adulti logorati tirano avanti la carretta come possono, un gruppo di bambini dà vita a fantasiose marachelle in un’estate trascorsa tra i motel colorati di Orlando, prima dell’immancabile risvolto drammatico – rivela una freschezza e un’originalità preziose.

Un andare dentro le cose che non rinuncia però a una visione d’insieme e più meditata sul microcosmo umano che ruota attorno a Disneyland (da quello “ospitato” nelle variopinte strutture alberghiere ai turisti di passaggio, dalla working class da terzo settore agli strampalati senza dimora), colto con osservazioni precise, puntellate da una costruzione della scena frontale e sorprendentemente geometrica.

 

Perfetta la direzione dei piccoli attori (menzione speciale per Brooklynn Kimberly Prince), scelti quasi tutti attraverso Instagram, anche se a tenere le fila è un disperante manager di motel interpretato da un ottimo Willem Dafoe (candidato all'Oscar come miglior attore protagonista).

Dopo Prince of Broadway e Tangerine, un’altra bella conferma per Sean Baker, che tra un omaggio ad Hal Roach (e a i suoi Little Rascalas) e un approccio narrativo strampalato e quasi burtoniano (ma dentro una cornice più squallida e de-fiabizzata) torna a mescolare documentarismo e finzione come metodo d’indagine dello spazio urbano e dell’odierno tessuto sociale americano. Ne viene fuori un film ricco di contrasti, di entusiasmi infantili e di rassegnazioni quotidiane, di ingenua poesia e di consapevole prosa. Un ritratto tenero e puntuale del nuovo sottoproletariato e dei suoi figli, appena camuffato sotto una fragile corazza pop.