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A Teheran, nel corso di una giornata di maggio, le drammatiche vicende di due coppie si sfiorano sino a convergere nella figura tormentata di Jalal, stimato professionista oppresso da un misterioso senso di colpa le cui ragioni si celano nel passato. L’uomo, nel tentativo di placare la propria sete di giustizia, ha fatto pubblicare su di un quotidiano un annuncio quantomeno singolare: la promessa di un consistente dono in denaro alla persona bisognosa che dimostrerà di trovarsi nelle maggiori difficoltà economiche. Della moltitudine di disperati che rispondono all’appello, fanno appunto parte Leila, donna di mezza età che anni addietro era stata la fidanzata di Jalal e adesso alla ricerca di soldi per pagare le cure del marito, e infine Setareh, una giovane ripudiata dalla famiglia per aver sposato l’uomo di cui è innamorata.
Nella cornice della cinematografia iraniana, il lungometraggio scritto e diretto da Vahid Jalilvand prosegue il discorso sulla spasmodica ricerca della collaborazione, anzi prima ancora dell’empatia fra le esistenze umane sconvolte dal dolore e prossime alla rassegnazione. Senza nascondere più di tanto l’accusa a un paternalismo della beneficenza che, per tacitare la propria inadeguatezza, deve cercare la pubblicità e uscire dall’anonimato, Jalilvand costruisce un organismo filmico coinvolgente dove le donne, a scapito degli uomini - piatti e grigi, violenti, egoisti o disabili che siano, - acquistano un vigore e una concretezza indiscutibili.
L’apparente impianto narrativo a episodi che poi si vanno man mano integrando, così come l’ambizione di realizzare un affresco sociale di ampie proporzioni, devono forse qualcosa al cinema di Kieślowski, per la tensione morale, e a quello di Iñárritu, per l’elasticità del racconto, ma a conti fatti un certo schematismo sembra inevitabile. Tenendo presente tutto questo, Un mercoledì di maggio ha il merito di proporre uno sguardo lontano da ogni becero moralismo così come dal cinema-spazzatura della lacrima facile, figlio degenere della tv, e in cui gli eccessi del simbolismo sono stemperati dalla partecipe constatazione della realtà.