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Brendan Fraser in The Whale. Credits: Courtesy of A24
The Whale si regge su un’immagine forte, che si incarna nel corpo attoriale di Brendan Fraser, naturalmente alle prese con il ruolo della vita e principale candidato (annunciato) alla Coppa Volpi a Venezia 79 in procinto della probabilissima volata verso gli Oscar.
Nel dare vita – o quel che resta – a un obeso insegnante di corsi online (che non accende mai la telecamera e delega tutto a una voce distesa e persuasiva), recluso in casa sia per questioni fisiche sia per scelta personale, Fraser porta molto del proprio vissuto: la solitudine del divo che si è lasciato andare diventando l’antitesi dell’ideale di bellezza (hollywoodiana) di cui era rappresentante; l’amarezza del tempo perduto; il senso della fine (di una carriera partita in un modo e che si è dovuta per forza reinventare).
Le analogie tra realtà e finzione ci sono, ovviamente, e non sorprende che dietro The Whale ci sia Darren Aronofsky, che proprio a Venezia vinse il Leone d’Oro con un film per certi versi affine, The Wrestler. Tuttavia, a differenza dell’interpretazione di Mickey Rourke che trascendeva la recitazione perché raggrumava il sangue effettivamente versato sui ring e scavava nell’autodistruzione quasi in funzione terapeutica, quella del gigantesco Fraser non fa altro che dimostrare la sua sorprendente dimensione drammatica purtroppo sviluppata di rado (Demoni e dei, Non lasciarmi sola, No Sudden Move).
In questo senso la sua performance in The Whale è sintomatica di un titolo facilmente allegorico (la dimensione del cetaceo, il riferimento al romanzo di Melville): Fraser sa evidentemente cosa vuol dire sentirsi a disagio in un corpo radicalmente mutato, ma nel lavoro con la tuta protesica (no, non pesa 266 chili come il suo personaggio) dimostra una profondità, una tenacia, una volontà di riscatto che appartengono a un attore sensibile e troppo intelligente per mettere davvero in campo se stesso e il proprio dramma.
È come se ci fossero due film: uno è quello di Fraser, che guarda ai grandi interpreti del Metodo e trova in The Whale la grande occasione per restituirsi al cinema d’autore grazie a un personaggio di sicuro impatto; e l’altro è quello di Aronofsky, che cerca invece di spingere il film verso un disturbante teatro della crudeltà.
Se apparentemente in questo piccolo lavoro, che rispecchia completamento lo spirito del tempo pandemico (formalmente: pochi interpreti in un piccolo ambiente; sul piano dei contenuti: la deriva dell’isolamento dei fragili), il regista sembra controllarsi più del solito, delegando tutto alla visione sempre più ingombrante del protagonista, è col passare dei minuti che ci sembra chiaro quanto il suo sguardo preferisca il patetismo alla pietà, l’esasperazione al dolore, lo schematismo alla fluidità.
The Whale copre cinque, fondamentali, giorni della vita di quest’uomo abbandonato da tutti (a parte un’amica infermiera che si prende cura di lui) che decide, forse presagendo qualcosa, di riallacciare i rapporti con la figlia, un’adolescente arrabbiata col mondo (con lui in primis). E lei accetta di frequentarlo solo per interesse, mentre un giovane missionario della New Life bussa alla porta promettendo la salvezza eterna.
Greve e sensazionalistico, è un dramma da camera (l’origine è teatrale) che gira attorno al tema della redenzione, abitato da personaggi che sono figure funzionali, chiuso nella sua malcelata morbosità grottesca.
Procede a colpi di metafore e scene madri, sottolineando ogni cosa con scelte e immagini di retorica d’accatto: la reiterazione di un misterioso testo su Moby Dick accompagnato dalle musiche strumentali di Rob Simonsen; l’insistenza sul sibilo come sintomo di morte; la voracità autodistruttiva raccontata con cinismo nascosto sotto la compassione; l’uccello simbolico che viene a mangiare sul davanzale; la pioggia che dilaga tutti i giorni a eccezione del finale programmatico. Dalla sua ha la scorrevolezza narrativa che, perlomeno, gli fa eludere la trappola della noia.