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The Seed of the Sacred Fig
Il regista e sceneggiatore Mohammad Rasoulof porta in Concorso a Cannes 77 The Seed of the Sacred Fig: “Il regime iraniano può rimanere al potere solo attraverso la violenza contro il suo stesso popolo”.
Condannato a otto anni di carcere, e passibile di pena aggiuntiva proprio in virtù del film, Rasoulof ha lasciato la patria - la Repubblica Islamica gli ha confiscato il passaporto nel settembre 2017 - in segreto, e ora sulla Croisette esibisce le foto degli attori rimasti in Iran.
Impastato di realtà e biografia, cronaca e verità, il film lungo quasi tre ore parte s’avvia con la promozione di Iman (Misagh Zare) a giudice istruttore della Guarda Rivoluzionaria: l’incarico coincide con la morte di Mahsa Jina Amini a Teheran, e le manifestazioni di piazza e la repressione del regime, avallata dalle sentenze dell’uomo stesso, turbano la pace familiare.
Le figlie Rezvan e Sana seguono elettrizzate e preoccupate la rivolta denominata Jina (Donna, Vita, Libertà), la moglie Najmeh (Soheila Golestani) prova a mediare, ma le cose peggiorano allorché la pistola di Iman custodita nel comodino non si trova più: l’uomo diventa paranoico, e mette sotto indagine i familiari, fino a deportarli nella sua città natale.
Concepito da Rasoulof durante la detenzione nel carcere di Evin nel 2022, girato nella costante “paura di essere identificati e arrestati”, The Seed of the Sacred Fig nondimeno ha saputo aggirare – “Non posso spiegare come…” - il sistema di censura, e concretarsi sullo schermo quale documentata e persino documentaria cartina al tornasole e memento civile, plasmato nella consapevolezza storica che “i potenti sovente uccidono le persone più vicine per garantire la propria sicurezza”.
Rasoulof costruisce la prima parte del film quale Kammerspiel formato famiglia, con la rivolta che entra in campo complice smartphone e news televisive, nonché le compagne delle ragazze: è il segmento migliore, che gioca tra dentro e fuori, privato e pubblico alzando il volume sociopolitico e affinando la tensione tra i caratteri, dal controllo paterno al collante materno fino all’incipiente antagonismo delle figlie.
Inquieto e inquietante, Rasoulof rimesta nella stessa acqua, ma l’iterazione è utile a decrittare e stigmatizzare una temperie insostenibile, la prevaricazione polimorfa del regime, che si insinua nelle cellule familiari e costringe l’intera società.
Poi, allorché Iman porta i congiunti nella sua città natale, la ricognizione del cineasta perde con gli inserti di repertorio il contesto ambientale e si fa insieme piccina, poco interessante e iperbolica, riducendosi nella ribellione di tre donne, moglie e figlie, al padre padrone – sulla parentesi stradale con gli oppositori stendiamo un pietoso velo.
Insomma, il film è importante, civilmente pregno, autobiograficamente edotto e politicamente prezioso, ma cinematograficamente mostra il fianco: fluviale, disomogeneo, non sempre conseguente.