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The Return
Metti un'Odissea, con uno spin, uno spleen, diverso: è l'approccio post-omerico di Uberto Pasolini, che pone il focus su chi resta, su chi è restato. Sì, Odisseo torna, ma perché e, ancor più, per chi? Telemaco e Penelope sono l'esistenziale cartina al tornasole, diranno loro chi e in ultima analisi anche perché è tornato, contemplando il "dove - cazzo - sei stato" dell'assenza e il "quanto sangue" dell'epifania. Sottinteso "ma chi ti vuole?", la transizione ideologica, anche di genere, è dal paradigma epico a quello tragico, con scaturigine indefettibile: tra proci e prodi, cui prodest?
Battezzato a Telluride, quindi Toronto e ora Festa del Cinema di Roma, The Return è manifestamente al di sotto delle proprie ambizioni: recitato con parsimonia, in difetto di pathos, poeticamente - e vieppiù ideologicamente - pallido, non ha la forza per sovvertire, o se preferite paradossalmente inverare, la lettera omerica. Senza scomodare il Bersani della copia di mille riassunti, è un bignamino con in esergo "vorrei ma non posso".
Sicché il macilento e parimenti musclé Ralph Fiennes, il meno spallato e più insulso Telemaco che schermo ricordi Charlie Plummer, la Penelope affidata a una Juliette Binoche riconoscibile solo per gli occhi - e al più i bracciotti tunicati alla bisogna - sottostanno tutti all'Antinoo, altrimenti detto "il pròco sensibile", incarnato dal bel Marwan Kenzari, l'elemento più degno di nota di questa inerte variazione sul canone omerico.
Di mero contorno il porcaro Eumeo Claudio Santamaria, non sufficiente qualche bella inquadratura notturna e fiaccolata del dop Marius Panduru, il sapiente Pasolini, già produttore di Full Monty e accorto, accorato regista di Still Life (2013) e Nowhere Special (2020), si rivela più imbelle che pacifista, problematico che controverso, logorroico che epico, asfittico che tragico. Non si uccidono così anche gli eroi.