Tutto inizia con una veduta dall'alto di Berlino: c’è una ragazza siriana seduta davanti a un oggetto che emana una luce bianca a intermittenza, di cui solo dopo scopriremo l’essenza. La giovane “prende” la luce, la riceve, la assume in sé. È l'incipit di The Light (Das Licht), appunto, il film di Tom Tykwer che ha aperto la Berlinale 75. Stacco.

C'è una famiglia della borghesia tedesca composta da moglie e marito con due figli gemelli: tutti sono distanti ed egoisti, ognuno coltiva se stesso e vivono in stanze separate della loro casa, spesso senza nemmeno guardarsi. Non è un caso che quando la domestica accusa un formicolio al braccio, proprio mentre lavora, a cui segue un infarto fulminante nessuno la vede, la donna si accascia e la non vita continua.

Nello specifico Tim Engles, di professione pubblicitario, col volto impagabile di Lars Eidinger, è impegnato solo a trovare lo slogan giusto per fregare più gente possibile, approfittando dei frammenti di frasi che sente perfino dalla figlia; la moglie Milena si lancia in un progetto per costruire un teatro in Kenya, nel classico terzomondismo di facciata fatto solo per soddisfare se stessa; tra moglie e marito non c’è un saluto, figuriamoci il sesso.

Lars Eidinger in The Light
Lars Eidinger in The Light

Lars Eidinger in The Light

(Frederic Batier / X Verleih)

Poi i loro figli Jon e Frieda: il primo vive nella realtà virtuale, letteralmente, perché immerso giorno e notte in un gioco di virtual reality; l’altra si districa tra il clubbing berlinese, quelli che escono il venerdì e tornano la domenica, di solito strafatti di acidi. Almeno lei è una vera attivista e l’unica che dice la verità: “Siamo la classica famiglia disfunzionale occidentale: a nessuno frega niente dell’altro”. A loro si aggiunge, in filigrana ma con ruolo decisivo, un bambino nero che si chiama Dio, figlio di Milena concepito in un'altra relazione con un kenyota: il bimbo ogni tanto inizia a cantare a cappella Bohemian Rhapsody dei Queen con chiaro suggerimento diegetico sulla storia: “Is this the real life? It this just fantasy?”, ma anche Mamma mia!.

In questo contesto interviene la giovane siriana, Farrah, che si presenta agli Engels come nuova domestica e subito prende servizio. Con la sua presenza discreta e silenziosa, continuando a sottoporsi alla “luce”, la domestica diventa una Mary Poppins dell'anima, in grado di entrare gradualmente nelle vite dei membri, che si confidano con lei e ricevono preziosi suggerimenti. Ma Farrah in realtà ha un piano… che non si può svelare perché rappresenta il colpo di scena finale, ciò a cui si tende, l’ultima macrosequenza coraggiosa nel senso che può essere amata o respinta.

Tom Tykwer è il regista di Berlino per eccellenza: molto amato a Potsdamer Platz dove fu presidente della giuria nel 2018 (premiò il discusso Touch Me Not di Adina Pintilie), noto al resto della comunità cinefila per la sua carriera altalenante: dal titolo che lo ha lanciato, Lola corre, fino al tentativo di internazionalizzazione con progetti più globali, l’assassino di Profumo, passando per il progressivo declino e il rilancio della serie Babylon Berlin. Una cosa è certa: The Light è il suo film più ambizioso.

Il regista nell’arco di 162 minuti getta di tutto nel suo indiavolato frullatore: dalla critica alla borghesia tedesca, per estensione occidentale, sino al progressismo di facciata, dal rischio hikikomori per i ragazzi che non escono dalla stanza alla fluidità sessuale del presente. E ovviamente il nodo dei rifugiati, portato dalla misteriosa Farrah, una sorta di sensitiva la cui natura è impalpabile ma ci viene detto il passato, ossia la catena di tragedie per arrivare dalla Siria alla Germania che fa risaltare ancora di più l’ignaro privilegio tedesco.

Tala Al-Deen in The Light
Tala Al-Deen in The Light

Tala Al-Deen in The Light

(Frédéric Batier / X Filme)

Ma il frullatore di Tykwer è anche estetico: tra squarci immaginifici e segni di surrealismo, cambia continuamente toni e registri, anche generi, dal comico al dramma, inserendo parentesi musicali e innesti animati, come quello che riguarda il bambino nero “cartoonizzato”, arrivando perfino ad allestire una sequenza wachoskiana (Jon e la ragazza che volano sullo Sprea) che rievoca la co-regia di Cloud Atlas. Così la parodia della famiglia tedesca si unisce all’arrivo dei migranti siriani, che reclamano il loro spazio qui metaforizzato dal potere “magico” di Farrah. Ma c’è davvero troppa carne al fuoco. E il film è troppo lungo.

Cosa succede se un regista prova a mettere almeno venti idee dentro due ore e quaranta? Inevitabile: alcune suonano riuscite (gli scontri verbali nella casa, splendida scenografia), altre zoppicano vistosamente (la terapia di coppia), altre ancora sono irricevibili (il primo balletto stradale totalmente fuori luogo). Fermo restando che ognuno fa il film che vuole, il suggerimento più opportuno sarebbe un nuovo rimontaggio che tagli almeno mezz’ora di troppo e le trovate più balzane… si rischierebbe un grande film. Così è un’opera ambiziosa e imperfetta, a suo modo affascinante, con una coscienza politica e una voglia sfacciata di colpire con l’immagine.