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Michael Fassbender in The Killer © Netflix
The Killer spiazza sin dai titoli di testa, che da una parte ricordano quelli del cinema americano classico, in cui i crediti scorrono tra immagini allusive o esplicite che annunciano e “raccontano” la storia, e dall’altra somigliano a quelli di un prodotto seriale, secchi e squillanti. Magari sul grande schermo qualcuno cercherà d’istinto il pulsante “Salta Intro”, ma è improbabile che la maggior parte degli spettatori veda in sala il nuovo film di David Fincher, che prima dell’approdo su Netflix passa in Concorso a Venezia 80.
È una provocazione, d’accordo, però la sensazione è che Fincher, tra i pionieri degli scambi tra cinema e serialità (qualcuno lo dimentica, ma House of Cards fu davvero una rivoluzione), abbia dato un colpo al cerchio dell’autoralità e uno alla botte delle piattaforme. Più che due film in uno, The Killer si plasma a seconda delle esigenze del pubblico: lungo poco meno di due ore, strutturato in sei capitoli, può essere visto nella sua interezza o parcellizzato in episodi piuttosto coerenti tra loro (c’è un morto per ogni frammento, più o meno).
A partire dal graphic novel di Alexis Nolent, Fincher si serve della sceneggiatura di Andrew Kevin Walker (che nel 1995 scrisse Se7en) per tornare alla purezza classica del genere, usando cliché abbastanza evidenti: il sicario senza nome con troppe identità di copertura, il passo falso che scatena una inesorabile catena di delitti, la resa dei conti con colpo di scena.
Se della trama prevedibile gli interessa quanto basta (a tratti quasi niente) per tenere in piedi il film, a Fincher non si può negare un certo impegno sul piano teorico, triangolando i ripensamenti new-hollywoodiani tra Friedkin e Pakula, le riflessioni filosofiche di Melville e la tensione dei revenge movie con Liam Neeson. Con la differenza che il killer non ha alcun carisma né fascino e ha sicuramente qualche forma di autismo che nasconde con insegnamenti piuttosto idioti sul rifiuto dell’empatia e il pericolo della vulnerabilità. In questo senso è intelligente la scelta di Michael Fassbender, che alle prese con un personaggio contraddittorio (lo iato emotivo e psicologico tra il monologo metafisico e il ritorno a casa) sa usare il registro monocorde e stilizza il personaggio fino a ridurlo a illustrazione.
E l’incontro con Tilda Swinton (pochi minuti che restano nella memoria) dimostra proprio il braccio di ferro tra l’immersione scarnificata in una figura e la recitazione scaltra e barocca di chi sa di dover essere un “carattere”.
Ma più che aggiornare l’universo di Siodmark, Lang o Ray, The Killer pare soprattutto la torpida e algida ripresa neo-neoclassica di un genere, certo coerente con il percorso del suo magnifico autore ma allo stesso tempo non particolarmente incisivo o dirompente, forse lo zenit di una deriva fighetta a cui il nostro non è certo immune (complici la fotografia cupa e levigata di Erik Messerschmidt e le musiche di routine di Trent Reznor e Atticus Ross).