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Da I magnifici sette ai laidi otto - come i film di Tarantino, che sono tutt’altro che laidi - perché non ci sono eroi stavolta, ma solo colpevoli. Non badare alle apparenze, avverte uno l’altro. E in effetti la verità è sempre duplice: non c’è una diligenza, ma due; non c’è un solo boia, ma due; non c’è una sola cosa che non sia anche l’altra. Il respiro originario del film, epico, si rivelerà rantolo. Il mito sembra aquila, ma è una cornacchia.
L’ultimo grande Tarantino, matto come le origini ma con la coscienza di uno che ne ha viste abbastanza, danza sul filo di una insanabile ambiguità. Lo dichiara smaccatamente del resto, a partire dallo strombazzatissimo 70 mm che il regista usa poco in campo aperto, come farebbe qualunque filmaker sano di mente, per rintanarlo in un lercio buco in mezzo al nulla. Il cinemascope in una latrina. Del mitico west ci dà le insegne, ma l’arredo è cambiato. E con lui l’ospite.
In The Hateful Eight non c’è un John Wayne nemmeno a pagarlo. Boia, assassini e cacciatori di teste quanti ne vuoi. Non c’è l’ombra di un indiano, ma solo figure tra il sudicio e il folklore. Bifolchi bianchi, niggers e messicani. Che si trattano e si disprezzano e si ammazzano come tali. Ieri come oggi. Insomma, con la consueta sfacciata maestria di creare ex novo rubando da tutti (Hawks ovvio, ma anche La cosa di Carpenter e La casa di Raimi, oltre al plagio dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie), Tarantino riscrive la nascita di una nazione staccandola dalle figurine e dal mito e impiccandola là, insieme ai suoi natural born killers. Il suo western in versione kammerspiel, lento, sospeso e inusitatamente innevato (dove affondano gli zoccoli del cavallo e affossano le rotaie della Storia), fa piazza pulita degli ultimi residui mitologici di un feticcio di Nazione in cui l'avventura dell'immaginario - il cinema - ha saputo solo annacquare, non estirpare, il veleno della violenza. Quante bugie.
Ignoranza, razzismo, sadismo, vengono generosamente offerti con una voluttà e una carica tale da farne irresistibile caricatura, ma il discorso non è sui litri di ketchup, sull’artificio più o meno esibito. E a pensarci bene non è nemmeno su quanto possa rivelarsi brutto il cuore di tenebra dell’America (sai che novità?). Vira semmai sullo sguardo, il nostro di spettatori. Su come i nostri occhi avidi, bramosi e spalancati si comportano al cospetto di immagini doppiate, trucide, truccate, eppure nascostamente veritiere. Siamo lì, con loro. Tutta l’abilità tecnica, il quid tarantiniano per dire, è in questa irresistibile immersività della scena contro ogni assuefazione, contro ogni rumore bianco del mondo(visione).
Siamo dentro, dunque. Ma dove siamo, realmente? Come ci poniamo, giudichiamo, sentiamo, fruiamo? È qui che il gran maestro d’ambiguità vince la partita più difficile. Riattivare la responsabilità di uno sguardo addormentato.
Oltre il formato, la confezione (dalla fotografia di Robert Richardson alla colonna sonora di Morricone) l’affabulazione di una scrittura debordante, oltre il piacere primitivo di ascoltare gli interpreti – tutti strepitosi, ma che mostro di bravura Samuel L. Jackson! Academy, davvero, vergognati! – e di seguire le loro storie, oltre quella stessa brutalità fisica e verbale, autenticamente animale (le iene, ça va sans dire) e ferocemente liberatoria, sperimentiamo la gioia del vedere e l’orrore dell’essere visti, la libido e la colpa del voyeur. Quanto può essere divertente vedere una donna ammazzata di botte, un nero sparato ai testicoli, una testa esplosa in mille frattaglie cerebrali? Quanto può essere pericoloso quell’aggettivo, divertente? C’è del marcio nel gioco. Tarantino, sta qui la differenza con altri beoti, non lo nasconde. Perciò quando la Christie in quello stesso romanzo scriveva che non ne rimase più nessuno, sbagliava. Perché restiamo pur sempre noi, che non possiamo voltarci dall’altra parte.