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Adam Driver in Rumore Bianco di Noah Baumbach. Cr: Wilson Webb/NETFLIX © 2022
Chi ha letto – e amato – Rumore bianco lo considerava sostanzialmente non filmabile, come tanti altri testi della letteratura postmoderna. Tant’è vero che nel corso degli anni tutti i tentativi di adattare il romanzo di Don DeLillo si sono arenati di fronte alla fatica di dialogare con un oggetto così imponente. Allora, diciamolo subito, onore a Noah Baumbach che con Rumore bianco (film d’apertura di Venezia 79, in Concorso) segna – comunque sia – uno spartiacque nella sua filmografia.
E più del risultato pensiamo alle intenzioni che sottendono il suo dodicesimo lungometraggio di finzione, un po’ perché ci sorprende che un regista come lui – ormai giunto a un’ammirevole maturità espressiva con The Meyerowitz Stories e Storia di un matrimonio, film splendidi ma del tutto coerenti con la sua idea di commedia indie, dedita al citazionismo colto, all’umorismo agrodolce, al racconto dei difettosi – abbia avuto il coraggio o l’imprudenza di avvicinarsi a un moloch del genere, disponendo peraltro di un budget imponente (si parla di oltre 100 milioni, più del preventivato, con annessa lavorazione tormentata).
In un certo senso questa lettura di Rumore bianco non si discosta troppo dalle marche tipiche del tipico sistema valoriale di Baumbach: è il mumblecore alla prova del kolossal d’autore, nonché un ennesimo eterno ritorno della New Hollywood ma nell’epoca dello streaming (non a caso siamo su Netflix). Una questione personale, in cui non a caso convoca i suoi due feticci: Adam Driver come Jack, professore di studi hitleriani in una università del Midwest, e Greta Gerwig nel ruolo di Babette, la quarta moglie del docente.
Meglio restare vaghi su una trama tanto difficile da sintetizzare: White Noise affronta, in maniera ironica, acida e angosciante, come una famiglia americana degli anni Ottanta reaganiani tenta di confrontarsi con i banali conflitti della vita quotidiana all’altezza di un disastro collettivo, toccando i misteri universali e i massimi sistemi.
Un’operazione spericolata e spudorata, in cui Baumbach coglie l’occasione per compilare un compendio dei suoi punti di riferimento: c’è Robert Altman per il lavoro sul suono (magnifico), con i personaggi che affastellano frasi che si sovrappongono e si accavallano interrogando l’attenzione, la pazienza, l’orecchio dello spettatore (la sequenza in cucina che presenta la famiglia); c’è Peter Bogdanovich per la dimensione intellettuale di un discorso sarcastico e allegorico sull’America e le sue contraddizioni (il senso della fine che pervade la seconda parte); c’è Woody Allen per le riflessioni su cosa siamo stati e cosa avremmo potuto fare di diverso prima dell’esame della morte (la paura di non reggere una volta deceduto il partner).
C’è tanta, forse troppa roba in questa trasposizione personale che all’attivo ha la fedeltà (restano le tre parti originali) e la dedizione al testo e al passivo una certa confusione nel mettere insieme i pezzi. Ne è venuto fuori un film ambizioso e diseguale, che interroga le ossessioni di ieri più che i tormenti dell’oggi, in cui si cerca l’ordine tramite la scansione in capitoli mancando l’appuntamento tanto con l’ansia dell’apocalisse che prescinde e trascende il tempo quanto con le possibilità di una storia che converge con le immagini della contemporaneità, convocata attraverso il loro emblema più attuale (la mascherina usata durante l’emergenza della nube tossica).
Un film volubile e spiazzante, in cui la satira sul consumismo rampante finisce per risultare poco più che decorativa, nonostante i titoli di coda che colpiscono per potenza allegorica e trasfigurazione nel genere classico americano (il musical), e quella sull’onanismo del mondo accademico diventa una promessa presto dimenticata.
Sarà il caso di riconoscere meriti anche alla persistente e perturbante colonna sonora di Danny Elfman e in generale non mancano momenti pirotecnici: l’indimenticabile duetto/lezione/scontro/numero in cui Driver e Don Cheadle si rincorrono nell'accumulare analogie e differenze tra Hitler ed Elvis; la corsa in auto nei campi; la notte da incubo di Driver risvegliato da una presenza nel letto; il cameo di Barbara Sukowa come suora cinica.
Che sia lodevole non c’è dubbio, non fosse altro perché a un testo del genere corrisponde un'impresa del genere che non si dimostra timida né modesta, perfino disturbante per come sa scontrarsi con la sua non rappresentabilità senza la paura di farsi male, di apparire incompiuto, di flirtare col disastro. Ma ha la forza di essere ciò che intendiamo per "grande film malato", cioè quel capolavoro mancato in cui lo scarto tra intenzione ed esecuzione fa soffrire e al contempo esalta?