Hélène Cattet e Bruno Forzani arrivano come due alieni nel concorso di Berlino 75. Il loro film , Reflection in a Dead Diamond , è qualcosa di totalmente diverso. Fuori dalle solite logiche: il primato della trama, la dittatura del racconto, la necessità di dire qualcosa. A ben vedere, chi conosce la coppia di cineasti francesi non si meraviglia: già il clamoroso esordio, Amer , e i successivi L'Étrange Couleur des larmes de ton corps e Laisser bronzer les cadavres erano una dichiarazione di essenza chiusa, un cosmo che basta a sé stesso. Così questo nuovo film, che compone una quadrilogia e riporta gli autori nella zona che amano: quello del cinema di genere degli anni Sessanta e Settanta. Dai primi titoli, infatti, si imponeva con tutta evidenza la derivazione sentimentale dal nostro cinema di genere anni Settanta, Argento, Fulci, Bava e compagnia, con slittamenti di toni e registi verso altri territori (l’ultimo era tratto da un noir di Manchette).

Il nuovo film è una spy story. Per così dire, perché la prima cosa da fare quando partono i titoli di testa del duo è rinunciare a ogni etichetta, riporre pregiudizi critici e spettatoriali, abbandonarsi alla costruzione dell’immagine. Il protagonista è John (Fabio Testi), settantenne, che passa il tempo in un albergo ricco e solitario affacciato sulla Costa Azzurra. Testi, in formissima, sembra Sean Connery: perché è proprio di James Bond che stiamo parlando, lo 007 è una delle figure su cui si muove la parodia. John è magneticamente attratto dalla donna nella stanza accanto (Maria de Medeiros), che in qualche modo gli ricorda gli anni Sessanta passati proprio sulla costa: all’epoca era una spia sotto copertura chiamata a sostenere le missioni più vertiginose tra cui, appunto, il recupero dei diamanti del titolo. Ma questo non è l’inizio, tecnicamente l’incipit è un altro: l’uomo sta oziando sulla spiaggia si ferma a guardare una splendida ragazza che si adagia nell’acqua; proprio lei sarà al centro di un intrigo nel presente, perché a John “pare” di vedere il suo omicidio. Seguendo la figura di de Medeiros, poi, ecco lo sbocciare della fantasia: egli ricorda e si perde nelle sua memoria, assediato da flashback o forse finzioni, dal passato che è esattamente come uno spy movie e ne ricalca tutti gli archetipi. Donne in pericolo, diamanti, pericolose assassine in una frammentazione del reale che non si può più chiamare tale, tanto è sbrindellato e affidato solo al flusso di coscienza dell’immagine.

Bruno Forzani & Hélène Cattet
Bruno Forzani & Hélène Cattet

Bruno Forzani & Hélène Cattet

È così che Cattet e Forzani in pochi minuti arrivano esattamente dove vogliono: nel genere Eurospy degli anni Sessanta, e in particolare nell’Italian Spy – spesso si parla italiano nel film -, ossia in quegli impagabili derivati da Bond che creavano perversioni come il James Tont di Lando Buzzanca o astute operazioni da B-movie come O.K. Conney di De Martino col fratello di Sean Connery. Questo il tavolo su cui si gioca: il film come sempre si sviluppa, anzi esplode in una lunga catena di immagini, ognuna delle quali è accuratamente costruita, pensata al millimetro, curata al dettaglio, insomma amata dai registi. Nell’arco di 87 minuti troviamo una messe di trovate impensabili nei “grandi film” dall’ampio minutaggio: vedere il vestito di diamanti della ragazza nera che diventa un’arma mortale per sterminare i nemici, un colpo di genio che basta per aprire e chiudere la partita. Il diamante stesso è una metafora dell’occhio: viene usato, in senso buñueliano, per aprire le porte della visione, in modo provocatorio com’è poggiare un diamante su un capezzolo. Cattet e Forzani giocano col cinema, insomma: lo dimostra la magistrale tenacia con cui lasciano alcune sequenze e le riprendono, concedono una visione per poi tagliarla (quel personaggio è vivo o morto?) e fornire solo alla fine il quadro complessivo. Il discorso è, ovviamente, metafilmico: tanto che all’improvviso siamo catapultati sul set dell’opera che si sta girando. La mente senile di John è confusa, alterna ricordi reali a squarci inventati e fittizi.

Lo spaghetti spy rivive sullo schermo, dunque, con tutta la sua intelligenza posticcia, che porterà il protagonista a diventare il fulcro di una serie spionistica in stile Segretissimo. E la suggestione primaria ne incrocia altre emanate da essa: la principale è la magnifica riscrittura del Diabolik di Mario Bava , con un’inversione di genere che porta una diabolik femminile chiamata Serpentik, e una gemmazione infinita di maschere di gomma che ne occulta l’identità. Attenzione però: Reflection in a Dead Diamond non è un divertissement. È un gioco serio che punta tutto sulla bufera delle immagini, avvolge lo spettatore e lo trascina con sé nel vortice, attraverso un lavoro straordinario su ogni fotogramma che genera una forma di ipnosi in chi guarda. Non si molla la presa sino alla fine. Sarebbe ora di riconoscere Cattet e Forzani come due grandi registi del presente, magari con un premio alla miglior regia.