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Più che un film, ovvero immagini in movimento, una fotografia espansa o, a voler essere cattivi, un fermo-immagine. È Priscilla, ritorno di Sofia Coppola a Venezia, in Concorso, dopo il Leone d’Oro nel 2010 al resistibile Somewhere. Dal memoir di Priscilla Presley Elvis and Me, il rapporto della medesima con il re del rock’n’roll, al quale fu sposata dal 1967 al ’73 e con cui ebbe Lisa Marie, morta lo scorso gennaio. Priscilla è Cailee Spaeny, Elvis Jacob Elordi, producono The Apartment di Lorenzo Mieli e A24 sotto il cappello di MUBI, ma la montagna produce un filmino: forse non per mole, di certo per resa.
Iter lineare, controllo esibito da parte della stessa Priscilla Beaulieu coniugata Presley, che – l’occasione è ghiotta – se la canta e se la suona, relegando la “povera” Coppola, anche produttrice con la familiare American Zoetrope, alla stregua di regista della seconda unità: una tranche de vie pastorizzata, in cui nessuno esce male, a parte il film stesso.
Non c’è sporcizia, tantomeno oltraggio, solo una teoria, invero prosastica se non prosaica, di immagini tendenti a – il grado – zero della sintassi cinematografica: un compitino senza soluzione di continuità, dal primo incontro in una base americana nella Germania Ovest fino all’approdo a Graceland, dal corteggiamento lento al matrimonio turbolento, che Spaeny e Elordi, pur non malvagi, affrontano con la stessa faccia, lasciando al cambio d’abito le uniche variazioni.
Nella parabola poco parabolica di Priscilla dovremmo intendere, sottintende Coppola, destino e autodeterminazione femminile, la condizione comune a tante giovani donne straniata da un contesto straordinario, e potremmo pure sforzarci, ma il paradigma è floscio, l’evidenza labile, la noia sensibile.
Va detto, i biopic proliferano, raramente con scaturigini interessanti, ma notevole – al netto di alcune buone cose, in primis la colonna sonora curata dai Phoenix del marito Thomas Mars – è piuttosto l’involuzione artistica di Sofia Coppola, ormai lontana parente di quella che, opera prima, seconda e terza, firmò Il giardino delle vergini suicide (1999), Lost in Translation (2003) e Marie Antoinette (2006).
Vittima del suo tempo, probabilmente, e della sua stessa inclinazione identitaria che nello Zeitgeist femminile e femminista sdilinquisce. Fatto sta, Elvis abusa di pastiglie per prender sonno, fosse – forse lo è – ancora vivo gli consiglieremmo questo Priscilla.