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Origin - Aunjanue Ellis and Jon Bernthal (Credits Atsushi Nishijima, Courtesy Array Filmworks)
Difficile restare indifferenti alle tesi esposte in Caste: The Origins of Our Discontents, il saggio di Isabel Wilkerson che descrive il razzismo negli Stati Uniti come un’evoluzione del sistema delle caste, cioè una stratificazione sociale fondata su principi gerarchici ed esclusivi, che ha per obiettivo quello di preservare la purezza delle razze. A partire da uno dei tanti omicidi con vittime persone afroamericane, Wilkerson elabora una tesi in cui confronta il sistema statunitense con quelli dell’India e della Germania nazista.
Se c’è un merito in Origin, il film che Ava DuVernay ha tratto da quel libro (diventato best seller nelle settimane comprese tra il delitto di George Floyd e le elezioni americane che hanno incoronato Biden), presentato in Concorso a Venezia (c’è un primato: mai prima d’ora c’era stata una regista afroamericana in corsa per il Leone d’Oro), è proprio quello didascalico. DuVernay (anche sceneggiatrice) prende letteralmente per mano lo spettatore, rendendo accessibili dei concetti accademici altrimenti poco fruibili e mettendo in scena i momenti della storia ai quali Wilkerson si riferisce.
E se c’è un demerito, in questo film intellettualmente stimolante e civilmente inattaccabile, è proprio quello di non trovare mai una fluidità tra i piani, quello della finzione contemporanea che nei fatti si colloca nel genere del biopic (la vita di Wilkerson tra un grave lutto e l’uscita del saggio; e si parte bene, con una quotidianità domestica che riecheggia i drammi di Charles Burnett) e quello della ricostruzione storica con i passaggi indiani e i frammenti tedeschi tutti egualmente posticci, come se fossero inserti di un programma educativo.
E lo stesso si può dire sul dialogo sfiatato tra la questione storico-sociale (gli indispensabili spiegoni, pur molto esplicativi e ridondanti) e quella emotiva, con il privato di Wilkerson (a cui nell’arco di un anno muoiono gli affetti più cari) ridotto a cornice accessoria per quanto necessaria a reggere la struttura. Che è quella di un film che individua nella figura culturale di Wilkerson il crocevia della storia afroamericana: figlia amatissima di una madre convinta che non bisogna dare modo ai bianchi di sentirsi infastiditi dalla presenza dei neri, moglie amatissima di un liberal bianco che ha sfidato il razzismo quotidiano, intellettuale stimatissima da un ambiente che le riconosce autorevolezza, competenza, carisma (Aunjanue Ellis-Taylor, che la interpreta, tocca le corde giuste).
Ma Origin non sa trovare un reale equilibrio tra tutte le sue dimensioni, si affida completamente alla potenza del contenuto e si sbilancia sulla forma, eccedendo nel registro retorico (gli istanti lirico-onirici, gli sguardi “adoranti” delle dame dell’editoria), delegando un contesto a episodi (l’idraulico elettore di Trump) e perdendo l’appuntamento con la storia (la sequenza del materassino è indimenticabile per ciò che è stato e che sarebbe potuto essere, non per come la restituisce DuVernay).
Tutti d’accordo che Origin abbia un messaggio straordinario, ma da queste parti pensiamo che spesso non basti a fare cinema memorabile. Comunque, palmarès prenotato, in direzione Oscar.