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La vita della tedesca Katja (Diane Kruger) va in pezzi quando il marito di origini turche Nuri e il loro piccolo figlio Rocco vengono ammazzati in un attentato di matrice neonazista. Katja è straziata, nondimeno la sua testimonianza contribuisce all’individuazione dei presunti colpevoli, che finiscono sul banco degli imputati. Assistita dall’avvocato Danilo, Katja vuole e chiede giustizia, ed è disposta a tutto per ottenerla…
Alle regia Fatih Akin, che ha preso diretta ispirazione da una serie di omicidi xenofobi recentemente perpetrata dal movimento neonazista National-sozialistischer Untergrund, è In the Fade, in lizza per la Palma d’Oro. Lo sappiamo, almeno, dal precedente The Cut, sul genocidio armeno (2014), che Akin ha perso smalto e molto altro, purtroppo si conferma bassi, forse infimi, livelli: moralmente discutibile, ammesso non siate fautori della legge del taglione; cinematograficamente – ed è l’unica cosa che conta davvero – imbelle, con stereotipi, incongruenze, colpi di scena citofonati plurimi.
Diane Kruger, poverina, non ce la fa, è bella ma non balla, non trasmette quasi nulla e ha un buffo problema con gli occhiali: li usa solo quando guida, appena spegne il motore se li leva subito, manco il cane di Pavlov.
Costruito come court drama prima e revenge movie dopo, ha tempi e modi della fiction tv: introspezione al lumicino, sottigliezze non previste, sottotesti assenti. Non bastasse, l’ultima parte in Grecia - che non sveliamo - è al di là del bene e del male, e… segnatevi questa battuta: “Non penso sia una coincidenza”.
Purtroppo, due indizi, The Cut e In the Fade, fanno una prova: c’era una volta Fatih Akin. Quello bravo, almeno.