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No Bears di Jafar Panahi, in concorso a Venezia 79
Contro l’autorità, oltre il mezzo. Leone d’oro al Lido nel 2000 con Il cerchio e Orso d’oro a Berlino nel 2015 per Taxi Teheran, arrestato a luglio dal governo iraniano e condannato a sei anni di detenzione, Jafar Panahi non è a Venezia 79, che gli ha lasciato una sedia vuota in conferenza stampa, ma parla con il suo film, No Bears, che gareggia per un altro Leone d’Oro.
Osteggiato in patria lo è da sempre, nel 2010 gli è stato vietato di realizzare nuovi film, rilasciare interviste e spostarsi dall’Iran per vent’anni. Ma il suo cinema non s’è arrestato, e di lì in poi ci ha sempre messo la faccia: This Is Not a Film (2011, contrabbandato a Cannes), Closed Curtain (2013, diretto con Kambuzia Partovi, Orso d’argento alla Berlinale), quindi Taxi Teheran, fino a Tre volti (2018, premio alla sceneggiatura sulla Croisette), di cui No Bears può essere considerato un gemello diverso per film nel film, ambientazione rurale, convergenze parallele.
Non si può dire troppo della trama di quest’ultimo, prossimamente nelle nostre sale con Academy Two, se non che le succitate convergenze parallele partono dall’eros e trovano thanatos.
In mezzo, un villaggio vicino alla Turchia da dove Panahi dirige un film oltre confine: la regia è da remoto, non gli accadimenti, non le storie d’amore, due e, appunto, parallele. Il potere morde, le tradizioni – superstizioni? – pure, sicché le coppie collidono con la società: quella finzionale, ma non fittizia (come può la prosa non farsi compromettere dalla vita?), che tenta di ottenere passaporti falsi per fuggire in Francia; quella locale e proibita, di cui Panahi avrebbe scattato una foto che gli anziani del villaggio gli richiedono.
Che siano i suoi attori o i villici, poco importa: la presa in carico è la medesima, la responsabilità rivendicata, però Panahi è troppo cinematograficamente edotto per ascriversi solo il precipitato politico, dunque delega assai al metacinema, alla riflessione – in primis veridittiva – sul dispositivo.
Poi, l’incapacità, la propria, insieme professionale e personale: di non fare cinema e, sarebbe invero facile, di lasciare il Paese. Un testamento? Forse, di certo l’ennesima cinedichiarazione d’intenti.
A 25 anni dal Pardo d’oro a Locarno per l’opera seconda Lo specchio, Panahi non ha smesso di lottare, di utilizzare il cinema quale linguaggio per riprodurre e ancor più compromettere la realtà, chiedendone conto al mondo spettatore.
Qui nega, da intellettuale, lo stato d’arresto in cui il regime vorrebbe reificarlo, qui testimonia, affrancandosene, “come la nostra paura conceda agli altri enorme potere”, qui eleva a potenza il senso politico del suo racconto per immagini e suoni: saranno pure lui, Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad dietro le sbarre, ma non lo sono, non ci sono, come gli orsi del titolo promettono.
Quello a cui Panahi invero non si sottrae è il mandato di comparizione che nella cattività cui è relegato gli evocano, gli invocano i suoi stessi film: lungi dall’essere protagonismo, il proprio mettersi in campo è piuttosto la risposta alla chiamata in correità.
Se gli abitanti, non scemi, del villaggio si limitano ad assecondarlo, noi possiamo e dobbiamo dargli il benvenuto: il potere è anche quello di non farsi togliere una possibilità.
Da premio: contro l'autorità, con autorevolezza; dietro la camera, dentro la realtà.