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Natural Light © Tamás Dobos
Durante la Seconda guerra mondiale, dal 1941 al 1944 le truppe ungheresi pattugliavano l'Unione Sovietica occupata: l'intento era quello di tenere d'occhio le frange partigiane ribelli.
Questa è la premessa dell'opera prima di Dénes Nagy, Natural Light, in concorso alla 71ma Berlinale.
Nel mucchio indistinguibile di soldati e abitanti di un villaggio remoto, il regista sceglie la figura di István Semetka (Ferenc Szabó, non professionista come tutto il resto del cast), un tempo agricoltore ungherese, ora caporale che dopo l'uccisione del comandante deve affrontare i propri dubbi e timori e prendere la guida della sua unità. Ma il caos che lo circonda non può essere tenuto sotto controllo.
Lontano dal devastante impatto che ebbe l'opera d'esordio del connazionale László Nemes (Il figlio di Saul), Dénes Nagy (che cita Andrei Roublev di Andrei Tarkovsky, Flanders di Bruno Dumont e Three Days di Sharunas Bartas come fonte d’ispirazione) realizza comunque un film di fattura notevole, tecnicamente e visivamente inattaccabile, sospeso nel bagliore e nel buio di “luci naturali” (di Tamás Dobos la fotografia) che avrebbero giovato del grande schermo di una sala per essere apprezzate a dovere.
Natural Light © Tamás DobosInteressato a catturare l'orrore attraverso lo sguardo di un volto immobile, il regista “traduce” il romanzo di Pál Závad (2014) concentrandosi su 3 giorni del 1943, quando in realtà il libro di 600 pagine raccontava una storia lunga 20 anni.
Senza fornirci troppe informazioni sul precedente vissuto del protagonista, Natural Light si concentra dunque sulla “neutralità” dello sguardo, utilizzando Semetka come corpo estraneo (né eroe, né malfattore, brav’uomo ma debole al tempo stesso) incapace tanto di offendere, ferire, quanto di opporsi alle cose sbagliate, orribili, che vede accadere intorno a sé.
Il regista Dénes Nagy © Tamás DobosIn un certo senso la stessa funzione che il film assegna alla natura circostante, indifferente e inospitale, capace di essere con i suoi quattro elementi al tempo stesso fonte di vita e di distruzione (si pensi alla bellissima sequenza dell’incendio verso il finale).
Parco di dialoghi e dilatato nei tempi, seppur non inutilmente lungo, il lavoro di Nagy restituisce così l’importanza della storia alla riflessione dei nostri giorni, quasi a voler spronare gli sguardi odierni a far luce in maniera differente su quello che ci circonda: mettere in discussione l’immagine che abbiamo di noi stessi, più fragile di quanto si possa credere.