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Cinque anni dopo la prima versione live action del Re Leone diretta da Jon Favreau (1,6 miliardi di dollari incassati nel mondo) arriva l’attesissimo Mufasa, nuovo capitolo di uno dei franchise più fortunati di casa Disney, nato ormai 30 anni fa con il film d’animazione tradizionale che, ancora oggi, nella categoria detiene il record di maggior incasso cinematografico nella storia.
Diretto dal premio Oscar Barry Jenkins, Mufasa: Il re leone prosegue tecnicamente sulle orme del precedente, mescolando CGI e photo-real con risultati a tratti sorprendenti, e ci riporta nuovamente al cospetto di Simba e Nala: i due leoni si devono allontanare dalle Terre del Branco e lasciano la cucciola Kiara ai fidati Timon e Pumbaa.
Ad intrattenere la leoncina però, più del suricato e del facocero, ci penserà Rafiki, il saggio mandrillo amico di suo nonno, Mufasa. E la storia che le racconta è proprio quella di quel leone leggendario: rimasto orfano dopo una violenta inondazione, viene tratto in salvo dal giovane principe Taka e viene adottato dalla sua famiglia, nonostante la riluttanza del capobranco, re di quelle terre. I due leoni diventano inseparabili come fratelli e, una volta adolescenti, dovranno affrontare un lungo viaggio per fuggire dalla minaccia del malvagio Kiros, a capo di un branco di leoni bianchi, gli “emarginati”, e per tentare di raggiungere Milele, luogo mitologico e rigoglioso della savana.
L’avventura è avvincente, il film riesce con estrema naturalezza a posizionarsi all’interno di quella che ormai possiamo definire una saga a tutti gli effetti con questa doppia natura di sequel-prequel: sullo sfondo resta viva la matrice ispiratrice dell’Amleto shakespeariano (in fondo stavolta tutta la questione sarà quella di scoprire per quale motivo il deuteragonista, l’amato Taka, si trasformerà nel reietto Scar), si procede alternando la suggestione della tradizione orale (il racconto di Rafiki, che a un certo punto entrerà in prima persona nella storia che disvela) alla contaminazione di uno spettacolo tecnologicamente avanzato, tale da farci sembrare di essere sempre lì, al cospetto delle varie specie animali che popolano quelle incredibili terre.
Allo stesso tempo rimane viva la volontà di concedersi licenze “romantiche” che l’animazione tradizionale rendeva forse più digeribili (in due ore di film, oggettivamente troppe, ci fosse mai un leone che mangia qualche malcapitata preda…) e non può certo mancare tutto l’apparato musical-canterino che, già con il prototipo del 1994, fece la fortuna del prodotto: anche qui, un conto è credere al disegno animato di animali che cantano, un altro sospendere l’incredulità di fronte alla “ricostruzione” perfetta di animali feroci (o meno) che non solo parlano come noi, ma che di tanto in tanto iniziano pure a cantare.
D’altronde la destinazione ultima del film – cosa con cui avrà dovuto fare i conti lo stesso Jenkins, uno che finora tra Moonlight, Se la strada potesse parlare e la più recente serie sulla Ferrovia sotterranea, dubitiamo abbia perso tempo a ragionare su chi dovesse essere l’utente finale – resta sempre il grande pubblico delle famiglie.
La curiosità è quella di scoprire se Mufasa riuscirà a far meglio del precedente live action, uscito a fine agosto in era pre-Covid: superare 1,6 miliardi globali e i 37,5 milioni di euro incassati in Italia non sarà semplicissimo, ma è pur sempre Natale…