La salamandra axolotl è una specie in via d’estinzione, vive solo in ambiente acquatico e rimane sempre allo stato larvale. È carnivora e, a volte, si nutre anche della stessa prole. In Mother’s Baby (in Concorso a Berlino 75), la vediamo esibita in un aquario, quasi fosse la fuoriserie del lussuoso ecosistema artificiale vantato da una rinomata clinica privata, specializzata nelle cure della fertilità, in cui si recano i protagonisti desiderosi di avere un figlio.

Quella salamandra torna ciclicamente, nel film di Johanna Moder, e non come estrosità: è una minaccia o un avvertimento, una coinquilina inatteso, un peluche che sbuca all’improvviso in un negozio per l’infanzia, una sorpresa sconvolgente. Ma è anche il segnale di un film sbilanciato, un po’ sbalestrato nel suo passare dal melodramma più lancinante alla paranoia meno equilibrata.

E dire che la prima parte è sorprendente, esaltata da un tensivo piano sequenza che riprende il parto senza mai farci vedere quel che effettivamente sta accadendo, affidando il racconto alla fatica fisica della madre, alla preoccupazione della madre, all’inquietudine dell’ostetrica, all’enigmatico volto del ginecologo. E dicendo che, sì, qualcosa non torna: il bambino – che vediamo di sfuggita – viene alla luce senza emettere suoni, con il cordone attorno al collo e un deficit di ossigeno, e perciò viene subito ricoverato altrove, finché in poche ore si riprende.

Claes Bang e Marie Leuenberger in Mother's Baby
Claes Bang e Marie Leuenberger in Mother's Baby

Claes Bang e Marie Leuenberger in Mother's Baby

(FreibeuterFilm)

Ora, che la madre rifiuti il figlio appena nato (a cui non viene dato un nome, come a voler sottolineare il limbo tra dubbio e certezza) è qualcosa che si verifica più spesso di quanto si pensi, ma Mother’s Baby esplora soprattutto quel che accade dopo, quando la donna – un’affermata direttrice d’orchestra – comincia ad analizzare quel bambino che sta crescendo, sottoponendolo a prove che dovrebbero “certificare” o “negare” il loro legame di sangue. E così nel dramma affiora sempre di più il thriller e, perché no, l’orrore di quel titolo che allude a Rosemary, ai demoni della porta accanto, a una maternità maledetta.

Ma in questa precipitosa catabasi che incrocia la depressione post partum e l’ossessione complottista manca uno scarto tra realismo e genere, con i pastelli della fotografia di Robert Oberrainer che non trovano la densità adeguata a dare corpo allo slittamento finale, la regista (anche sceneggiatrice con Arne Kohlweyer) pronta a nuotare senza braccioli nei meandri di una psiche sotto tensione e le sintonie con l’Erlkönig che Franz Schubert compose sui versi di Goethe ispirati alla vicenda reale di un bambino morto che sosteneva di essere inseguito da una personificazione della morte.

Inquietante ma schematico, ma la prova di Marie Leuenberger è di spessore (nel cast anche Hans Löw nel ruolo del martio, Claes Bang a dare mefistofelico fascino al dottore e Julia Franz Richter come ambigua ostetrica).