Prometeo è tornato. Questa versione contemporanea non ruba il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini, ma al contrario sottrae i loro dati per farne merce di scambio. I nuovi Prometeo si chiamano Elon Musk, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos, Sam Altman. Cambia lo stile, ma la solfa è la stessa: promettono il mondo di domani mentre si arricchiscono con quello di oggi.
Chissà se è a loro che si è ispirato Bong Joon-ho in Mickey 17 (nella sezione Gala della 75ma Berlinale e dal 6 marzo in sala).
Tratto dal romanzo quasi omonomo (Mickey 7) di Edward Ashton e ambientato nel 2054, immagina che un politico/imprenditore cacciato per manifesta impresentabilità da ogni consesso democratico, Kenneth Marshall, tenti di rifarsi una verginità politica alla guida di una spedizione su un pianeta gelido e inospitale, Niflheim, con l’obiettivo di colonizzarlo e piantare la bandiera del suo megalomane progetto – ah, lo spirito di rivalsa. Lo interpreta Mark Ruffalo, divertito, impettito in pose mussoliniane, abiti à la Balle spaziali, mascelle cotonate tipo Marlon Il Padrino Brando e inglese sbiascicato. A tanta ipertrofia dell’ego, solleticata da una corte imbarazzante di corifei e cortigiane, fa scopa l’atrofia di un cervello elementare, sui cui ingranaggi lavora con devozione mefistofelica la consorte (un’ottima, sgradevole, Toni Collette). A ribadire che l’intelligenza è insidiosa ma la stupidità micidiale.

MARK RUFFALO E TONI COLLETTE in “MICKEY 17”. Courtesy of Warner Bros. Pictures
MARK RUFFALO E TONI COLLETTE in “MICKEY 17”. Courtesy of Warner Bros. Pictures

MARK RUFFALO E TONI COLLETTE in “MICKEY 17”. Courtesy of Warner Bros. Pictures

Il regista coreano, atteso al varco di una produzione mainstream dopo l’incredibile exploit di Parasite, sembra credere fortemente nella scemenza del genere umano, nel male ma anche nel bene. Ed ecco Mickey, l’idiota buono alla Forrest Gump, interpretato con encomiabile adesione da Robert Pattinson. Mickey per sfuggire alle grinfie di un creditore senza scrupoli, finisce per imbarcarsi in questa improbabile impresa spaziale ricoprendo il più fetido degli incarichi previsti, quello di “expandable”, ovvero di sacrificabile. In poche parole, farà da cavia per misurare gli effetti collaterali del pianeta alieno. Lo vedremo perciò morire in molti modi diversi: devastato dai virus, bruciato, congelato, fatto a pezzi, divorato (forse) dai creepers, vermoni che popolano le grotte sotterranee di Niflheim. Ogni volta riportato in vita da una stampante umana, in una progressione numerica che indica a un tempo l’identità del prototipo e la serie potenzialmente infinita delle sue variazioni.

ROBERT PATTINSON E NAOMI ACKIE in “MICKEY 17”. Courtesy of Warner Bros. Pictures
ROBERT PATTINSON E NAOMI ACKIE in “MICKEY 17”. Courtesy of Warner Bros. Pictures

ROBERT PATTINSON E NAOMI ACKIE in “MICKEY 17”. Courtesy of Warner Bros. Pictures

Mickey, direbbe il Papa, è lo scarto di una civiltà tecnologicamente evoluta ma umanamente estinta. Rigenerabile al limite come un telefonino. È una cosa Mickey. Fungibile non solo come topo da laboratorio ma anche come oggetto affettivo e sessuale per alcune donne dell’equipaggio; ma è una cosa anche Marshall. La copia di mille riassunti dell’autocrate ottuso. Solo più in alto nella scala gerarchica. Gli unici a suscitare un minimo di empatia sono i creepers. Insomma, chi s’aspettava una versione mainstream dovrà ricredersi vedendo come Mickey 17 sia un Bong Joon-ho in purezza più di quanto non lo fosse Parasite. Per il ritorno di vermi e creature aliene, per lo stupidario umano, per l’immaginario steampunk, per il registro fortemente grottesco e satirico, che fanno del film una parodia fantascientifica di una realtà già parodiata di suo. E nell’adottare una prospettiva fieramente marxista, laddove anche la scintilla dell’autodeterminazione non ha motivi ideali per scoccare se non nella materialissima lotta per la sopravvivenza, Bong Joon-ho fa mostra di non credere alla novità dell’evoluzionismo tecnologico come propagandato dai guru della Silicon Valley: che si abbiano stampanti umani o macchine a vapore, il mondo sempre quello rimane: torbido, imbelle, merdoso, diviso tra sfruttatori e sfruttati. All’individuo fagocitato dal sistema non resta che cambiare le cose sacrificandosi per il collettivo. È il socialismo, no a malintesi.

BONG JOON - HO E ROBERT PATTINSON nel backstage di “MICKEY 17”. Courtesy of Warner Bros. Pictures
BONG JOON - HO E ROBERT PATTINSON nel backstage di “MICKEY 17”. Courtesy of Warner Bros. Pictures

BONG JOON - HO E ROBERT PATTINSON nel backstage di “MICKEY 17”. Courtesy of Warner Bros. Pictures

Non troveremo qui questioni etiche o filosofiche di altra natura, semplicemente perché la fantascienza, così come contemplata da Bong Joon-ho, è una forma narrativa iperbolica di una concezione materialistica della storia. Non prevede salti in avanti o veri cambi di paradigma. L’apparato scenico è volutamente obsoleto, da archeologia industriale. In questo, Mickey 17 ha qualcosa anche del cinema di Terry Gilliam . Ma è una proposta che trova aderenza anche altrove. Nel rifiuto istintivo di quella retorica pseudo-futurista e incendiaria che nutre i tanti Mr. X di oggi (no, non il villain de L’uomo tigre, ma quelli dell’omonimo social). Il sacerdote del nuovo ordine tecno-politico e la sua rozza caricatura convivono in questo passaggio storico che si apre minacciosamente come il portale de L’armata delle tenebre. Dove il già visto minaccia il già vissuto. Again è l’avverbio del ventunesimo secolo. E la sua ermeneutica.

ROBERT PATTINSON in “MICKEY 17”. Courtesy of Warner Bros. Pictures
ROBERT PATTINSON in “MICKEY 17”. Courtesy of Warner Bros. Pictures

ROBERT PATTINSON in “MICKEY 17”. Courtesy of Warner Bros. Pictures

Miti come quello di Prometeo, di Mefistofele o di Frankenstein, tornano utili. Il futuro non era il feto cosmico kubrickiano né l’Avatar cameroniano. Al massimo l’uomo di Harkonnen, che fluttua potente e oscuro nello spazio che sogna di dominare e negli ingranaggi di una salvezza che promette di ingegnerizzare. In questo teatro di ombre espressioniste, il cinema più lucido abita il boccascena che allarga il mondo e approfondisce lo sguardo. In The Shrouds di David Cronenberg, lo scienziato/imprenditore nell’inventare un “sudario” tech che consenta di osservare in ogni momento il corpo dei propri cari decomporsi, cerca di combinare pro domo sua l’ossessione per la visibilità, la mistica della tecnologia, la memoria ridotta a necrofilia digitale. Cronenberg ribalta Orfeo, che perse la possibilità di riportare in vita l’amata per un solo fugace sguardo. Nel mentre novelli Frankenstein ripopolano l’immaginario. Guillermo Del Toro sta ultimando per Netflix la sua personale versione della creatura di Mary Shelley, ma in fondo cos’era il Godwin di Povere creature!? A proposito di Lanthimos, se Poor Things era il film sul ritorno del divino nella forma del padre/padrone, il successivo Kinds of Kindness ne inquadra il controcampo, la patologia del discepolo in una modernità attraversata da correnti irrazionalistiche (sul ritorno patologico del religioso in forme superstiziose vedere anche The Substance e l’eucaristia rovesciata nella dialettica corpo glorioso/mostruoso di cui parleremo più avanti nel focus sul nuovo horror trascendentale). In questa congerie di figure nuovi e di temi antichi - e viceversa – i cineasti devono neutralizzare le insidie di un pensiero bloccato e i traumi di un immaginario senza capo né coda, schermo della fine di ogni narrazione piuttosto che sua riorganizzazione visiva. Si va avanti a riciclo continuo. Facendo metastasi di immagini ovunque. Come nel corpo-blob immaginato dalla Fargeat. O nella ristampa seriale di Bong Joon-Ho. Queste mitopoiesi del contemporaneo, a guardarle con attenzione, si somigliano tutte.