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Memory Box di Joana Hadjithomas & Khalil Joreige - © Haut et Court - Abbout Productions - Micro_Scope
“Incredibile. Hanno ricostruito tutto”.
È un viaggio per riportare a galla il rimosso di ricordi dolorosi, Memory Box, film diretto da Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, in concorso alla 71ma Berlinale.
Maia (Rim Turki) è una madre single, vive a Montreal con la figlia adolescente, Alex (Paloma Vauthier). Durante le festività natalizie le viene recapitato uno scatolone che raccoglie frammenti del suo passato, della sua giovinezza nella Beirut degli anni ’80: contrariamente alla volontà della madre, Alex inizia segretamente a rovistare in quegli oggetti. Tra fantasia e realtà, l’adolescenza tumultuosa e appassionata di Maia riprende vita, sullo sfondo della lacerante guerra civile libanese.
Fotografie, collage, audiocassette, la new wave (One Way or Another dei Blondie, tanto per citarne una) diventano l’ancoraggio non solo emotivo ma anche linguistico-visivo con cui far dialogare due generazioni, due realtà, due epoche – analogica vs. digitale – tentando così di colmare un gap, favorire un riallineamento che il silenzio, il represso, rendevano fino a quel momento impossibile.
“Ai nostri figli”, la dedica non casuale che i registi-coniugi Hadjithomas e Joreige lasciano a futura memoria a fine film. Che nasce – realmente – dai taccuini e dalle cassette che Joana spediva ad una carissima amica trasferitasi in Francia da Libano in quel periodo: dal 1982 al 1988 “ci scrivevamo ogni giorno, spedendoci foto e nastri registrati”, racconta.
Memory Box non è il semplice resoconto di “fatti realmente accaduti”, la finzione prende le mosse dal gesto ma il film ha il grande merito di restituirne l’ampiezza di una situazione, di un periodo così fortemente drammatico, in maniera certo dissimile ma altrettanto efficace di Valzer con Bashir (2008), film con cui Ari Folman – attraverso l’animazione – riportava in superficie lo straziante massacro di Sabra e Shatila.
Joana Hadjithomas & Khalil Joreige - cr. Joreige HadjithomasLì era il subconscio, gli incubi, qui a smuovere le acque di un passato non vissuto in prima persona è l’adolescente tenuta al riparo dai ricordi materni dolorosi: fotoromanzi artigianali, collage di una giovinezza dove l’amicizia e gli amori dovevano fare i conti con le bombe e gli omicidi, immagini di repertorio e voci registrate si distendono sullo schermo, ricompongono i frammenti di un “film” vissuto ma mai restituito, che la fuga di allora mise idealmente in un ripostiglio che lo scorrere del tempo ha finito per ostruirne e negarne qualsiasi accesso.
Alex – costretta a casa da una tempesta di neve, non per questo “isolata” dagli amici grazie agli smartphone – impara così a conoscere davvero sua madre, a comprendere quanto fosse completamente diverso “tenersi in contatto” nell’epoca predigitale, come fosse più facile, altresì, perdersi per sempre in seguito ad un allontanamento “fisico”.
Maia, a sua volta – dopo l’ostinato rifiuto iniziale – può finalmente tentare di “ricostruire tutto”. Anche un presente che le consenta di ritornare lì dove non era rimasto più nulla. Perché anche quelle macerie polverose, nel corso degli anni, si sono trasformate in altro. E riabbracciare luoghi e sensazioni che dovevano essere tirate fuori da un ingombrante scatolone. Lasciando alla figlia, alla tecnologia, la possibilità di imprigionare nuovi ricordi. In time lapse.