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Margini (cred. Francesco Rossi)
Sono trascorsi quattordici anni dagli eventi narrati in Margini, unico film italiano presentato alla Settimana Internazionale della Critica, eppure sembrano molti di più. È una scelta formale, precisa, in cui il punto di vista del regista, l’esordiente Niccolò Falsetti (classe 1987, all’attivo vari doc e corti), si riverbera nelle immagini evocative di Alessandro Veridiani, anche lui debuttante come direttore della fotografia.
Parliamo di un decennio, quello degli anni zero del duemila, che almeno finora il cinema ha raccontato in diretta, spesso concentrandosi sulla piccola borghesia, e che Margini finisce per “storicizzare”, fissandone il costume all’altezza della provincia e cercando di riflettere lo spirito di un’epoca attraverso la narrazione di una nicchia. Di una realtà ai margini, appunto.
Sarà forse per questo motivo che i protagonisti della storia, membri di un gruppo punk hardcore di Grosseto, appaiono come dei reduci di una stagione che ognuno ha vissuto diversamente. C’è Michele, il più grande, sposato con prole che, a differenza della moglie più assennata, continua a credere che la musica possa essere occasione per cambiare vita. C’è Edo, coccolato dalla mamma, che lavora nel dancing del patrigno e ma desidera un’esistenza fuori dai canoni. E c’è Iacopo, violoncellista borghese pronto a una tournée internazionale con Barenboim e che si esalta suonando insieme a quegli eccentrici compagni d’avventura.
Margini (cred. Francesco Rossi)Stanchi di suonare alle feste dell’Unità, vedono una svolta quando vengono scelti per aprire il concerto a Bologna degli americani Defense. Annullato il concerto, non si sa bene come convincono i prestigiosi colleghi a suonare a Grosseto. Ma dove? Lo storico e decaduto dancing del patrigno di Edo? Uno spazio del comune (che però pensa solo alla rievocazione medievale)? Una sala del centro anziani? E con quali attrezzature? E come pagare i costi di gestione?
Opera prima che sceglie uno schema classico, incardinato sul tema dell’impresa ardita messa in atto da un gruppo sgangherato, Margini dimostra un’indubbia vocazione nostalgica, dialogando con l’underground musicale dagli anni Ottanta in giù e recuperando atmosfere del cinema giovane degli anni Novanta.
Il riferimento dichiarato è il sempiterno Odio di Mathieu Kassovitz pur con meno rabbia, ma c’è anche uno sguardo al Paolo Virzì di Ovosodo, con il quale condivide l’affetto verso i personaggi e lo spaesamento in una terra natia scopertasi straniera. E c’è la consapevolezza di essere un’emanazione dell’universo di Zerocalcare (autore del manifesto che “appare” due volte nel film) al crocevia della poetica di Gipi.
È interessante il lavoro di Falsetti, che ha scritto il film con Francesco Turbanti (che interpreta Michele) e Tommaso Renzoni, sul sistema di riferimenti culturale della sua generazione, ritrovatasi sulla scia di quella precedente (qui rappresentata da Michele) a frequentare concerti a offerta libera, con lattine di birra e materassini volanti e a immaginare un futuro che però coincideva con il ritorno di qualcosa che c’era già stato.
Margini (cred. Francesco Rossi)Lo dimostra il doppio e parallelo racconto di formazione di Edo e Iacopo, entrambi bisognosi di collocarsi in un mondo altro rispetto a quanto previsto dagli altri. E anche il finale che, senza svelarlo, annuncia la dolcezza irrequieta di un futuro imprevedibile e fluido, con la morsa invisibile di una crisi economica e sociale che segnerà soprattutto la provincia e i provinciali.
Quasi un Sapore di mare del punk hardcore, ben confezionato, che piacerà a chi ha vissuto la stagione del Forte a Roma e dell’Estragon a Bologna (per citare due locali evocati dai personaggi) e a chi la rimpiange, ma Margini non nasconde qualche timidezza quando imbocca strade più convenzionali, suggerisce ellissi poco originali, ammicca in cromatismi e sonorità a un tipo di cinema indipendente eppure ormai istituzionale. Producono Alessandro Amato, Luigi Chimienti per dispàrte, i Manetti bros. e Rai Cinema.