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Carey Mulligan e Bradley Cooper in Maestro. Cr. Jason McDonald/Netflix
A director is born e il suo nome è Bradley Cooper. Perché Maestro, seconda regia della star, in Concorso a Venezia 80 (a Natale su Netflix, direzione Oscar), non è solo un deciso passo in avanti rispetto al mélo con Lady Gaga (che ebbe la sua prima sempre al Lido), ma anche un biopic complesso che penetra nella carne viva di un monumento (Leonard Bernstein, uno dei più grandi direttori d’orchestra e compositori di sempre). Di Maestro, Cooper ha il controllo completo, davanti e dietro la macchina da presa: come attore, supera la mimesi del trucco protesico – comunque incredibile – per esplorare l’intimità, le contraddizioni, i desideri, le pulsioni di un uomo di talento; come regista, sceglie di leggere la vicenda umana di Bernstein seguendone le tracce artistiche.
Racchiuso in uno special televisivo realizzato dal musicista in vecchiaia (incipit e pre-finale, perché nel vero fotogramma che conclude il film non c’è il protagonista), Maestro ha una prima parte straordinaria, in cui, complice il seducente bianco e nero di Matthew Libatique, si ricorre alle coreografie del musical (l’universo che attraversa la prima fase della carriera di Bernstein) e ai labirinti delle macchine teatrali per costruire un movimento sinuoso e vorticoso, in cui vita e finzione comunicano con una fluidità che è anche dato biografico (il legame intenso tra privato e scenico e, va da sé, la bisessualità del divo).
Quando si passa al colore, con cromatismi coerenti con l’epoca rievocata (dagli anni Sessanta in poi), il film trova una misura meno eclatante e legge la vita di Bernstein in parallelo e in convergenza con la fase successiva al grande successo West Side Story, dedicata prevalentemente alla musica assoluta e all’opera, scegliendo uno sguardo quasi da prosa (camera fissa, osservazione da lontano, pochissimi movimenti). Ma Maestro, nonostante un titolo singolare così potente, è un film plurale e mai muscolare, un po’ come le performance di Cooper sul piedistallo che evita manierismi e sensazionalismi ricordando l’antica lezione secondo cui il mestiere è fatto più di traspirazione che di ispirazione.
Maestro è, in realtà, la storia di un matrimonio a dir poco non convenzionale, in cui la coppia attraversa circa trent’anni di ménage faticosamente tenuto in piedi grazie soprattutto alla pazienza, alla comprensione, alla compassione, all’intelligenza della moglie Felicia (ottima Carey Mulligan, vero cuore del film), sempre consapevole dell’orientamento sessuale del marito e al contempo cosciente che quell’amore (ricambiato) ha un senso.
Proprio per i registri adottati, Maestro è anzitutto uno struggente melodramma sulla manutenzione di un amore, sulla capacità di fare i conti con il desiderio e la paura (lui), sulla scelta di sopportare il dolore della condivisione (lei), sulle convinzioni su cui si edifica una relazione (“Non hai idea di quanto hai bisogno di me”), sul bisogno di tenere insieme tutto malgrado tutti (“Jerome Robbins aveva ragione: è impossibile”).
Non c’è il racconto del colpo del fulmine, della costruzione di una relazione, della sua fine traumatica: c’è tutto ma in filigrana, senza scene madri né colpi bassi, con un solo vero cedimento retorico (il momento appena successivo all’esecuzione della Messa).
In un film così pieno e stratificato, Cooper fa vedere meno di quanto sa suggerire e trova nel genere biografico lo spazio ideale in cui, attraverso i dati più “esteriori” che si fanno significanti (il trucco, il décor, le forme), si può riflettere sullo statuto delle icone (Bernstein è un dio fallibile e affamato di esperienza) e sul ripensamento del reale (la lettura romantica di un rapporto amoroso sicuramente più articolato e sofferto è una scelta di campo). Offrendo della vita di Bernstein – e di Felicia, che del film è la vera protagonista – un ritratto sincero e mai ossequioso, devoto alla sua arte e affascinato dal suo lessico familiare, appassionante ma alla ricerca di una misura che torni all’essenza umana del divo.