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Per alcuni può esserci un riferimento lontano, di oltre mezzo secolo fa, La legge del Signore di William Wyler, Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1957. Gary Cooper interpretava un padre, un mite quacchero che vedeva suo figlio Anthony Perkins sparire per la Guerra di Secessione. E lo andava a riprendere sul campo di battaglia, senza aver mai imbracciato un fucile, secondo i dettami del suo credo religioso.
Oggi non c’è più spazio per l’impresa di Wyler, tra la Storia e l’avventura, anche se in qualche modo Lubo di Giorgio Diritti (presentato in concorso a Venezia 80) potrebbe esserne l’immagine speculare. Per Gary Cooper il percorso era semplice, diretto, motivato dalla fede. Qui per lo zingaro Lubo Moser, la questione è più complessa, come gli anni che stiamo attraversando. È lui a essere reclutato a forza. Non è un quacchero, ma uno jenisch. I suoi tre bambini gli vengono strappati per essere “rieducati”, se ne perdono le tracce. La moglie muore nel tentativo di salvarli. Il protagonista cambia il suo nome, e inizia un conflitto personale, alla ricerca di ciò che ha perduto. Il fronte è la Svizzera, la battaglia è per una paternità rubata, da ritrovare e proteggere a ogni costo.
Diritti guarda al passato per restituire al presente le sue colpe. Lo definivano un programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse), ma fu una barbarie. “Gli zingari sono sempre stati un problema. Ma siccome Lubo Reinhardt era uno zingaro, a lui interessavano poco i problemi degli altri”: inizia così il romanzo Il seminatore di Mario Cavatore, da cui il film è tratto. Diritti trasmette la rabbia, il dolore di queste righe, attraverso il protagonista Franz Rogowski.
La sua è un’interpretazione trattenuta, costellata di piccoli gesti e sguardi fugaci, in una vicenda dai ritmi talvolta dilatati, a tratti ellittici, dove al centro ci sono le comunità di strada. Si torna a Il vento fa il suo giro, ma anche alla solitudine di Volevo nascondermi. Nella prima sequenza va in scena l’irreale: un orso balla, si stende a terra, il ventre dell’animale si apre e Lubo sorge dalle sue viscere. È una genesi, l’incipit di una danza ancestrale, la cronaca di un universo in fermento, con la Seconda Guerra Mondiale alle porte.
Lubo è un film in cui perdersi, lasciarsi guidare dalle atmosfere. La ricerca e la vendetta si fondono con uno sviluppo inquieto, imperfetto, fatto di improvvise accelerazioni e cambi di rotta. Che cosa insegue davvero Lubo Moser? Forse neanche lui lo sa, vittima e carnefice di un’epoca tempestosa. Lubo affascina, respinge, dimentica sé stesso per poi ritrovarsi. Nella sua durata fluviale si districa tra il classico e il moderno, collassa per poi rinascere, in un’epopea dove nessuno può redimersi.