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L'ombra di Goya
Da oggi fino all’8 marzo sarà nella sale italiane il docu-film L’Ombra di Goya, girato da José Luis López-Linares - regista del film campione d’incassi Bosch. Il giardino dei sogni (2017). La sceneggiatura è di Jean-Claude Carrière, scomparso nel 2021, e Cristina Otero Roth.
Attraverso dodici diversi sguardi - fra storici, pittori, registi, astrofisici e persino un otorinolaringoiatra - si scorre la carriera del pittore aragonese, dalla maniera chiara degli esordi, segnati dall’influsso della grande pittura italiana del Seicento e Settecento (Luca Giordano, Corrado Giaquinto, Tiepolo), alla “maniera scura”, più cupa e drammatica degli anni maturi. Il film è una ricognizione itinerante della pittura di Goya, dove le pitture, con i loro contesti ambientali e architettonici, si susseguono come episodi concatenati. A svelarsi mano a mano è il racconto originato dalla relazione tra lo spettatore e l’opera, analizzata come fenomeno storico e vivo, sintomo del tempo e rivelazione nel presente di chi osserva, a sua volta filtro per gli spettatori dello stesso docu-film. Così, l’ombra evocata dal titolo può essere intesa non solo come traccia che residua dalla pittura del maestro, ma anche come sua emanazione verso lo spettatore, che viene lasciata agire perché possa testimoniare la singolarità dell'incontro e dare corpo alla sua narrazione.
In particolare, Jean-Claude Carrière, che è voce e allo stesso tempo soggetto coprotagonista, interpreta e racconta Goya nell’ordito della propria esistenza, intrecciandoci la trama della pittura del maestro spagnolo. Si reca a Fuente de Todos, il piccolo paese dove nacque Goya, si apposta accanto al grande camino, lo paragona a quello della sua casa, e tesse il racconto a partire anche da un solo dettaglio per aprire il suo discorso: «Goya è come una fonte, Fuente de Todos, tutti possono trovarla, per esserne distratti, spaventati, impauriti, consolati».
Carrière non entra dentro il quadro, come Akira Kurosawa nel film Sogni (1990); non trova l’artista in un incontro impossibile, quello che propone non è una visione, ma la realtà di un dialogo tra esperienze, poetiche, ricordi. La pittura di Goya si svela nel gioco degli immaginari, quello dello sceneggiatore rievocato dalla pittura dell’artista innanzitutto: come quando davanti al Cane interrato nella rena (1820-21) del Prado si commuove per l’affinità della bestiola con Tristanita, la cagnetta dell’amico regista Luis Buñuel, aragonese e sordo come il pittore.
L’oggetto del film dunque non è solo Goya, piuttosto è una combinazione tra la weltanschauung di Carrière e quella del pittore, con intermezzi e focus su singoli quadri illustrati da interlocutori sempre autorevoli nel loro dire. Il film mostra bene come la dimensione drammatica della realtà si acutizzi in Goya nel 1793, quando la sordità lo colpisce irrevocabilmente e l’entusiasmo per la rivoluzione francese si trasforma in spavento. Nel silenzio totale - parafrasando le parole usate da Carrière nel film - sono in lui tutte le voci: una lo invita a soffermarsi sulla violenza spettacolare della corrida, un’altra sul grottesco della società, altre ancora sulla miseria degli ultimi e gli orrori della guerra; i suoi occhi, come quelli di Argo, intercettano le innumerevoli sfaccettature umane, colte nel presente e consegnate ai posteri nell’hic et nunc della pittura che sempre si rinnova. Ogni sua immagine - dice ancora Carrière - sembra porre una domanda a chi la guarda: «Hai questo in te?».
Non poteva mancare nella riflessione di Carrière un confronto tra Goya e Caravaggio, un pittore che non ha ancora avuto un docu-film degno della sua opera, risucchiato com’è dagli stereotipi post-romantici del genio maledetto. Davanti alla Giuditta e Oloferne (1819-1823) di Goya, Carrière non può far a meno di notare quella comune attrazione per la sfera contadina, per gli ultimi e gli umili. L’influenza del pittore, d’altra parte, giungeva a Goya mediata e trasfigurata dalle prove di artisti che sul Merisi avevano a lungo riflettuto, da Velázquez a Zurbarán a Ribera. Si apprezzano del lavoro di López-Linares le riprese cinematografiche della pittura; la regia simula il movimento dello sguardo, dal basso verso l’alto, dal particolare al generale, consentendo, per i tempi ben calcolati, un adeguato momento di contemplazione, senza interruzione del flusso del racconto. La scelta di testi poetici e musicali a commento delle opere di Goya è sempre opportuna e conveniente al caso. Come quando, mostrando le pitture dell’Oratorio della Santa Cueva di Cadice, si introduce la visione del “Cristo vivo” in Croce (1780) di Goya oggi al Prado. L’opera ha in sé tutta la drammaticità dell’analoga invenzione michelangiolesca, l’intensità sentimentale del Barocci e l’erudizione del De cruce di Giusto Lipsio (1594), scritto intrinseco alla cultura spagnola del Seicento che Goya aveva bene introiettato, forse passando per la lettura del De pictura sacra (1624) di Federico Borromeo e certamente dell’Arte de la pintura (1649) di Francisco Pacheco. È questi a esortare i pittori a dipingere - come fa Goya – il Cristo vivo con i quattro chiodi, i piedi ficcati sul suppedaneo e il viso rivolto al cielo mentre sembra dire «Heli, heli». In definitiva il film di Luis López-Linares è una lectio magistralis che scommette sul potere della pittura e sull’empatia di Carrière, giustamente annoverato da Julian Schnabel tra gli eredi spirituali di Goya: ma si va ben oltre al doppio ritratto.
Non mancano nel film corretti riferimenti alla cultura moderna e a quella più contemporanea, come quando si rievoca Picasso che, sconvolto dagli orrori della guerra di Corea, ripensa alla guerra d’indipendenza spagnola vissuta da Goya e al suo Tre maggio 1808 (1814). Il film di José Luis López-Linares, nel tracciare un itinerario corale della pittura di Goya, ha il merito di partire sempre dall’opera dell’artista, per analizzarne, dopo essenziali inquadramenti storici, le risultanze germinate nell’animo dello spettatore, lasciando spazio a una più libera interpretazione. Come suggerisce ancora Julian Schnabel nel film: «Gli artisti consegnano una lettera scritta a mano al prossimo, ed è un’estensione di quel dialogo».