Per fare un albero ci vuole il seme, per fare L'albero pure, alla voce Petraglia. La figlia dello sceneggiatore Sandro, Sara, esordisce alla regia cercando non l'inedito, ma l'inaudito, nell'autobiografismo più o meno mascherato e nel cocaine-of-age, più che coming. Almeno sull'edito esibisce chiaro coraggio: cosa c'è oggi di più (luogo)comune di Pigneto, Napoli, coca e omosessualità? Dritto per dritto, l'infilata della storia piatisce novità al racconto, e Petraglia, già fotografa, ci si prova e ammannisce uno stile fresco, adesivo, scanzonato fino allo scazzato - ma irrimediabilmente borghese.

Per carità, rispetto a Troppo azzurro di Filippo Barbagallo o Quasi a casa di Carolina Pavone, c'è un'idea di messinscena qui e ora e non altruigenerazionale, e il pubblico potrà agevolmente trarre insegnamento sull'apparecchiare la coca - meno, temiamo, sulle dinamiche relazionali e/o sentimentali dei giovani, pardon, delle giovani oggi. Però, per dirne uno, se si pensa a Weekend di Andrew Haigh qui, se non L’albero tout court, cadono le braccia.

Comunque, tra una pippata e una poesia, una botta e un desio, un uomo che non c’è e un uomo che non c’è, L'albero drammaturgicamente poco frondoso consegna la relazione - elargiamo – pericolosa tra due simpatiche ragazze, Bianca (Tecla Insolia) e Angelica (Carlotta Gamba): la prima non studia, è a libro paghetta della famiglia che vive in centro, sente la mamma, “lavora” a tre libri, su amore, amicizia e coca, sopra tutto, declina e coniuga la dipendenza; la seconda è motore e stimolo, occasione e dannazione, diciamo love interest – qualcosa di più, qualcosa di meno.

Recita la sinossi, “l’albero che si intravede, muto, dalla finestra di casa - niente andrà perduto”, e quel muto ci ammutolisce – problemi nostri, si suppone.

Su tutto, questo esordio, in Concorso alla Festa di Roma 2024, conferma e perfino irrobustisce un certezza in fieri, che Tecla Insolia sia la più fulgida e in parte già realizzata promessa del nostro cinema: ha gli occhi che parlano, e dovrebbe fidarsi e bastarsi di quelli. Petraglia, che pure il cast lo dirige bene, la indirizza viceversa nell’overacting facciale, con mossette e smorfiette indifferenti all’oggetto e davvero di troppo: buona questa e, crediamo, ancor meglio la prossima per Insolia. La regista e sceneggiatrice in solitaria, confidando massimamente nell’universalità del proprio sentire, traduce vissuto in arte, o giù di lì, con buon piglio, assertività qui e là realizzata, topiche assortite – la sosta cimiteriale con gli amici disposti à la pubblicità di moda è emendabile – e un ostinato filmare.

Le ricorderemmo, tuttavia, che le radici sono importanti – e “scoprirle” alla fine, insomma. Ambizioso e labile.