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Yaxi Liu in La città proibita di Gabriele Mainetti - Foto Andrea Pirrello
Non è un caso che Neo in Matrix impari subito il Kung Fu. Si tratta dell’insieme delle arti marziali nate in Cina, il cui significato rimanda subito all’abilità. È da questa parola che si deve partire per analizzare La città proibita di Gabriele Mainetti. Serve abilità per trovare un punto di incontro tra Oriente e Occidente, serve abilità per creare un ponte tra il cinema di Hong Kong e quello italiano. Anche perché la storia non ha mai concesso degli esempi memorabili. Ci vuole quindi un coraggio incredibile, un’ambizione sfrenata, per dar vita a un alieno per la nostra industria, una meteora da supportare.
Mainetti sa che con la macchina da presa bisogna osare, a ogni costo. Dà vita a un’epopea mai scontata, che si muove sul confine tra realtà diverse. Si inizia dalla Cina, da due sorelle divise per la politica del figlio unico. Stacco, si arriva a oggi. Una donna scatena il finimondo all’interno di un edificio criminale. Siamo a Pechino o a Roma? È proprio questo il gioco di magia. La città proibita si muove su canoni solo all’apparenza antitetici, che qui si fanno complementari.
Si strizza l’occhio a Vacanze romane con uno spensierato giro in moto, si costruisce una lady vendetta degna di una femme fatale con gli occhi a mandorla, e soprattutto si pensa a Bruce Lee, a L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente a La mano sinistra della violenza. L’iconico spadaccino monco con il volto di David Chiang sembra rivivere nella protagonista di La città proibita, che soffre, viene ferita, ma non si spezza. Si respira l’atmosfera di una working class hero che si fa baluardo del cinema popolare. E non è poco.
Ma come far convivere Paesi che si trovano a migliaia di chilometri di distanza? Come trovare una misura, una cifra stilistica, che possano portare Hong Kong a Piazza Vittorio? La risposta è semplice, ma non scontata. A fare da collante è una storia d’amore forse impossibile, in cui a vincere è proprio il cinema, in tutte le sue forme. Mainetti ci ha abituato a film controcorrente, solo all’apparenza irrealizzabili. Lo chiamavano Jeeg Robot (ci sarà mai un sequel?) dimostra che anche in Italia possono vivere i supereroi, Freaks Out era un contenitore di immaginari che non ha eguali. E La città proibita? È un tassello ulteriore nella poetica di Mainetti, in cui l’uomo comune deve scoprire nuovi talenti per sopravvivere.
Inaspettato, gargantuesco, fluviale, La città proibita si spinge oltre il limite, sfida il mainstream, e si rivela un colpo di scena che riporta in auge gli anni Settanta. Prossima tappa?