La tartina con sardine e panna, la camminata claudicante della nonna, i baffi del padre, i turbanti della bisnonna, il gatto immaginato, l’automobile tanto grande da sembrare salotto. Sono tanti i segni che fanno capire quanto La cache (in Concorso a Berlino 75) sia da leggere attraverso lo sguardo del protagonista, un bambino paffuto, vispo e curioso che abita temporaneamente in una casa bohémien insieme ai, nonni, zii e bisnonna, mentre i genitori sono impegnati nelle proteste studentesche.

Un filtro infantile che si esprime tramite i codici del fumetto (le strisce con Gaston Lagaffe sono un indizio) e della fantasia (la carrellata di sfondi urbani), con un décor che accumulando oggetti (libri, cibo, spartiti, sigarette, cuscini) e giocando con le arti (il collage, i tagli, i pezzi di quotidiano appiccicati sugli specchi) riesce a distillare l’intera storia del Novecento in un interno tanto caotico quanto allegro. Perché tutto ciò che c’è fuori è estensione della casa, dalla Citroën in cui è normale bere del te caldo all’atelier dove esporre i quadri dello zio più giovane.

Ma è il titolo a dirci qualcosa in più, da tradurre il nascondiglio, come appunto è intitolato il memoir scritto da Christophe Boltanski all’origine del film diretto dallo svizzero Lionel Baier. Nascondiglio perché quell’appartamento parigino su due piani è la tana di una famiglia di eccentrici, d’accordo, le cui stravaganze gauche non sono ben viste dal vicinato borghese. Ma anche perché, nella Parigi occupata dai nazisti, fu effettivamente il rifugio in cui il nonno ebreo di Boltanski, figlio di due emigrati russi, si recluse per due anni pur di evitare la deportazione.

È un fantasma, quello della persecuzione nazista, che assilla questo personaggio, medico malinconico e sorridente che somministra pochi medicinali, a cui basta un segnale per tornare alla paura di quei giorni. Specialmente se ci troviamo nel pieno del maggio 1968, mentre i manifestanti fanno le barricate coi mobili degli altri e vengono inseguiti dai gendarmi perfino nei ristoranti frequentati dai benpensanti.

Basta un accenno anche vago di rappresaglia per far sprofondare (letteralmente) quell’uomo che prova a nascondere il trauma sotto la bonomia: è una fase decisiva per lui, tant’è che, forse, La cache è un romanzo di formazione più per il nonno che per il nipote (che tra l’altro “reinventa” il simbolo della ghettizzazione in modo tanto scandaloso quanto innocente), non fosse altro per l’estremo benché tardo passaggio esistenziale che determina la definitiva separazione dalle radici.

È un ruolo che il grande Michel Blanc, all’ultima apparizione prima della morte (la dedica finale è per lui), tratteggia in sapiente equilibrio tra tenerezza e tenacia, così come i suoi compagni di cast, dalla nonna dolce e risoluta di Dominique Reymond (la vera Marie-Elise Ilari-Guérin, corsa cattolica di origini ucraine, fu scrittrice con lo pseudonimo Annie Lauran) agli zii stravaganti William Lebghil e Aurélien Gabrielli (disegnati sul linguista Jean-Élie Boltanski e sull’artista visivo Christian) fino alla monumentale bisnonna di Liliane Rovère e al piccolo Ethan Chimienti.

Album di famiglia in cui si riverbera la storia di una nazione meticcia e complessa, sospesa tra il rispetto per gli ormai anacronistici padri della patria (è il momento surreale ma decisivo del film) e il bisogno di abbandonarsi ai fermenti della lotta, La cache è un buon condensato dell’ottimo romanzo di partenza che inevitabilmente deve focalizzarsi su un momento storico per evitare la soap opera di sinistra. Ed è una commedia ironica, affettuosa, bozzettistica nel senso migliore, calda come un abbraccio.