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La bête (The Beast) - Credits Carole Bethuel
"Riesci ad aver paura di qualcosa che non si vede?".
Il vuoto intorno, il senso di una catastrofe imminente. È già tutto accaduto. Tutto deve ancora succedere.
Chi è Gabrielle Monnier? Un'aspirante attrice nella Los Angeles del 2014, o un'affermata pianista del 1910 nei salotti bene di una Parigi che attende solo di essere inondata, o ancora una giovane donna che nel 2044 deve decidere se attuare la "purificazione" del proprio DNA, atta a cancellare le emozioni?
Bertrand Bonello porta in gara a Venezia 80 La bête (The Beast), liberissimo adattamento da La bestia nella giungla di Henry James: opera teorica che ragiona in primo luogo sulla paura di amare, il film - acquistato per l'Italia da I Wonder Pictures - procede assumendo varie sembianze, anche quella, soprattutto, di indagine atta ad esplorare i confini entro i quali e oltre i quali un'attrice è disposta a spingersi.
Léa Seydoux compare in un'asettica green room (non la sala d'aspetto dietro le quinte di un palcoscenico, ma un vero e proprio studio dove il verde non è solamente sullo sfondo inglobando l'interezza dello spazio) dove le viene chiesto di recitare una scena, con niente e nessuno accanto ovviamente, nella quale alla fine dovrà restituire lo spavento al cospetto di una fantomatica Bestia: è il prologo di una vicenda dalla struttura complessa, dove period drama, sci-fi e passato prossimo digitale convivono in un film capace di tenere sospeso lo sguardo tra romance impossibile e presentimenti di angoscia.
Il melodramma come punto di partenza (l'incontro ad inizio Novecento tra Gabrielle e Louis, che le ricorda di essersi già visti in passato in Italia, ricalca in un certo modo la novella di Henry James), l'approdo ad un futuro (che potrebbe essere oggi) dominato dall'Intelligenza Artificiale, il ritorno ad un decennio fa per catturare le avvisaglie di una generazione abbandonata a sé stessa, La bête sembra cibarsi degli avanzi di un cinema capace di coniugare le diramazioni lynchane di Mulholland Drive con le traiettorie significanti di Holy Motors di Leos Carax (la villa losangelina che Gabrielle "controlla" per 1000 dollari al mese nel 2014...), riportando a galla il nero pece delle immersioni della Johansson aliena di Under the Skin.
La sua grandezza, però, è quella di non finire schiavo di questi rimandi, di non rimanere confinato nei gangli di un'opera derivativa e speculativa, tutt'altro: Bonello - che per la parte di Louis ha dirottato sul britannico George MacKay dopo la morte del già scritturato Gaspard Ulliel, alla memoria del quale il film è dedicato - mantiene costante il mistero sul senso della sua visione ma al tempo stesso sa dialogare con il pubblico, perché alla complessità dell'insieme giustappone scene dove le situazioni, i dialoghi e l'espressione delle emozioni catturano frontalmente l’attenzione dello spettatore, stimolato continuamente all’immersione (sì, c’è anche la storica alluvione della Senna...), ritrovandosi ora al cospetto di due innamorati che non possono, non riescono a concretizzare il loro amore (Parigi, 1910, nella luce che anticipa il buio della prima guerra mondiale...), ora in un non-luogo abitato dalle incognite sul presente e sul futuro (Los Angeles, 2014, con Louis 30enne rabbioso perché incapace di amare e di essere amato, pronto alla follia di un gesto folle, una manciata d’anni prima dall’avvento del #MeToo...), ora in una quasi-distopia popolata da “bambole” svuotate di qualsiasi emozione (eccola, la bestia...) – le bambole, sì, che Gabrielle nel 1910 vende in serie e nel 2014 si ritrova, semiparlante sul divano… – con locali disco dove è possibile rituffarsi nelle musiche e nelle atmosfere di epoche andate (il 1972, il 1980, il 1963...).
Chi siamo, chi siamo stati, chi saremo? Il ricordo di un domani annegato, la paura dell’amore, dell’ignoto. Ma senza le nostre paure – compresa quella nei confronti dell’IA, che “come ogni strumento diventa minaccia quando diviene più forte di te”, sostiene Bonello – senza la possibilità di combatterle, sfidarle, superarle, non siamo altro che pupazzi svuotati di senso.