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Vincent Lindon in Jouer avec le feu
Jouer avec le feu, cioè “Gioca con il fuoco”. Pierre non ci gioca, con il fuoco: lo accende per lavorare, di notte, muovendosi lungo i binari delle ferrovie. È una torcia, Pierre, nella notte, la luce che guida i treni che lavorano mentre la città dorme. E mentre Fus, il primogenito di Pierre, balla tra altre luci, meno definite e comprensibili, seguendo un flusso caotico, forse alla ricerca di un quale ordine.
È un operaio di mezz’età, Pierre (Vincent Lindon è, al solito, poderoso: chi come lui sa portare addosso i segni del tempo senza trucchi o furbizie?): i suoi colleghi stanno cominciando ad andare in pensione, è rimasto vedovo presto e ha cresciuto, da solo, in una grande casa di periferia che trasuda fatica, due figli: Louis, il più piccolo, sta per lasciare il nido per trasferirsi a Parigi, dove sta facendo i test per entrare alla Sorbona (Stefan Crepon, bravissimo); e poi, appunto, Fus, il più grande, che tutti chiamano così da Fußball (calcio in tedesco: è un nomignolo datogli dalla madre), non ha mai completato gli studi da metalmeccanico, gioca a pallone e si sta avvicinando sempre di più a un gruppo di ultrà (Benjamin Voisin, splendido, non più una promessa ma una certezza dopo Estate ’85 e Illusioni perdute). C’è qualcosa che non va, in Fus, e Pierre se ne accorge subito: che fare quando tuo figlio non ha i tuoi stessi valori civili e morali, quando perdi il controllo sulle sue azioni, quando non puoi fare più niente perché ormai è troppo tardi?
In Concorso a Venezia 81, Jouer avec le feu (il titolo internazionale è più spiccio ma antifrastico: The Quiet Son), tratto dal romanzo Quel che serve di notte di Laurent Petitmangin, segna un deciso passo in avanti per le sorelle Delphine e Muriel Coulin, rivelate nel 2011 con 17 ragazze e che non realizzavano un film di fiction da otto anni (Voir du pays), comunque un anno dopo il documentario Charlotte Salomon, la jeune fille et la vie, sulla breve e tragica vita della pittrice.
Un passo in avanti perché, con rigore e misura senza rinunciare a sensibilità e emozione, con Jouer avec le feu riescono a muoversi abilmente su più piani. Quello familiare, anzitutto: al di là della precisione descrittiva degli ambienti (la casa così credibile, dal tavolo allungabile al divano consumato) e delle relazioni nel profondo della provincia francese (il pub, lo stadio, il dopolavoro), è interessante che siano due donne a raccontare un microcosmo maschile senza ricorrere a sociologismi sulla mascolinità contemporanea o a rudimenti psicanalitici per rappresentare i rapporti tra padre e figli.
C’è, piuttosto, la capacità di mettersi accanto al dolore dei personaggi, che non vuol dire eludere i giudizi sulle azioni – soprattutto quelle più ripugnanti – ma entrare nei solchi che scavano i volti, nelle ferite mai rimarginate, nelle lacrime che cadono all’improvviso. E lasciare, così, che siano i personaggi stessi a vivere la parabola e non le autrici ad assecondare un progetto programmatico in cui dare precedenza alla tesi.
Ed è, appunto, sul piano politico e sociale che funziona bene – e si fa schiettamente popolare – Jouer avec le feu, trovando forza nella sua elementarità, con il conflitto tra padre e figlio trascende la politica e ricade nel quotidiano: il meticciato che sta alla base della nazione contro la xenofobia di cui sente la nazione in pericolo, la consapevolezza delle radici (“Lo sai come siamo, un giorno siamo tedeschi, un giorno siamo francesi”) contro la pulizia etnica, la rete sociale dei lavoratori contro i gruppi estremisti neofascisti (Pierre la chiama “feccia”, da cui capiamo l’orizzonte valoriale; Fus si fa tatuare una croce celtica e la minimizza quale “tribale”).
Le Coulin non tengono separate le due linee, anzi le intrecciano e le sovrappongono perché l’una è funzionale e complementare all’altra. E così Jouer avec le feu diventa il film indispensabile nell’Europa sempre più nera, non solo per resistere alla violenza e ammonire sulle recrudescenze di destra, ma anche per affrontare le grandi tematiche su cui si edifica la società: fare conti con i traumi che portano a polarizzarsi, credere nella giustizia, trasformare la vergogna in riconciliazione. Certo, la deposizione in tribunale è un po’ retorica, ma, insomma, anche i “messaggi” hanno bisogno di spazio.