PHOTO
Io e il Secco
Uccidere il padre, ce lo ha insegnato Freud, segna il passaggio del figlio all’età adulta, ma qui le nevrosi non c’entrano, perché a esprimere il desiderio – che ha che fare con l’amore e la giustizia più che con un’ossessione – è un bambino di dieci anni. Denni con la I che con il Gionatan con la G del corto con cui ha esordito Gianluca Santoni condivide il punto di partenza: la protezione di una madre amatissima e intrappolata in un inferno domestico dov’è vittima delle violenze quotidiane del padre. Suggestionato dal racconto di un’amichetta che parla di questo cugino “superkiller”, si presenta a casa del Secco, un ragazzone dinoccolato e apparentemente truce, capelli biondi tinti e un piccolo crocifisso tatuato sotto l’occhio, un fratello pregiudicato e un disperato bisogno di soldi, a cui promette una lauta ricompensa una volta ucciso il padre.
Con Io e il secco, nato da un soggetto scritto con Michela Straniero e vincitore del Premio Franco Solinas nel 2017, il debuttante al lungo Santoni riconfigura i personaggi del corto di diploma, non solo allargando il respiro della storia ma anche – ed è forse la scelta più determinante – ricollocandoli in un territorio spesso dimenticato dal cinema italiano. Cioè quello di una provincia adriatica (zona romagnola, tra il ravennate e il cesenate) trascurata più che degradata, l’inverno climatico e non solo di uno scontento che nel personale rispecchia il collettivo (la fotografia è di Damjan Radovanović), con il cielo terso che in un attimo si fa plumbeo, il mare calmo epitome di una lancinante malinconia, l’umidità che si impone sul freddo.
Ed è nel tono che Io e il Secco trova la cifra identitaria, la confidenza con i personaggi, l’adesione allo spazio, il registro emotivo. Si parte dal dolore – anche fisico, rappresentante dal volto sempre più tumefatto della sempre magnifica Barbara Ronchi – e si scopre un sentimento dove collimano la tenerezza (gli sguardi tra Denni e il Secco, ognuno bullizzato a proprio modo), l’umorismo (la lunghissima giornata è piena di episodi rocamboleschi), l’afflato poetico che incrocia la metafora (galleggiare in una vasca senz’acqua), le ricadute pop (Sere nere cantata nei momenti di paura), la tensione (il prefinale).
Più che un coming of age sulla perdita dell’innocenza (sono pronti?) è una parabola sull’infanzia tradita, sulle conseguenze del patriarcato, sul riconoscersi al di là delle convenzioni, che si avvale della bella chimica tra l’inedito Francesco Lombardo e Andrea Lattanzi. E Santoni fa qualcosa che non è solo sintomo di sensibilità ma anche di lucidità: si mette ad altezza di bambino, ne interroga i sogni e i bisogni e, in un sistema industriale che riduce i bambini a meri consumatori di prodotti derivativi, dà loro la dignità di spettatori intelligenti. Perfetto per Alice nella Città, che l’ha scelto come unico italiano in Concorso per la sua ventunesima edizione.