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Il viaggio avventuroso di due giovani senegalesi, Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall), che lasciano Dakar alla volta dell'Europa. È Io capitano, undicesimo lungometraggio di Matteo Garrone, in Concorso a Venezia 80. Le note parlano di Odissea contemporanea attraverso le insidie del deserto, gli orrori dei centri di detenzione in Libia e i pericoli del mare, ma il riferimento esplicito, quasi un testo a fronte, è un altro, ed è annoverato dalla filmografia dell’autore romano: Pinocchio, qui tradotto in Seydou.
Scritta con Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e Massimo Ceccherini – non credevamo, ma l’assenza dell’abituale Ugo Chiti non si fa sentire, ovvero leggere -, fotografata da Paolo Carnera, montata da Marco Spoletini, l’avventura collodiana in Africa, via Senegal, Mali, Niger e fino alla Libia e quindi la Sicilia si concreta quale film di un bianco per un pubblico bianco sull’epopea di un nero. Il noi e loro, invero, non è mai oppositivo, intelligentemente Garrone opta per una regia piana, una sintassi paratattica, un tallonamento mai virtuosistico, quasi un assecondare più che (in)seguire: una certa elementarità, dunque, che sconfessa parimenti l’approccio etnografico, l’enfasi tragica, il voltaggio patico. Io capitano sta, è come appare, non trasgredisce la realtà che inquadra, nondimeno, sa sempre raffigurare, e figurarsi, l’altrove e l’alterità, che Garrone consegna parimenti all’elemento aereo: nel primo caso, la profuga morente che si libra in aria, il messaggero che sorvola Seydou nel ricongiungimento onirico, meglio, immaginifico alla madre rimasta a Dakar; nel secondo, l’elicottero di soccorso.
Terra, acqua – e fuoco – sono invece il territorio di Seydou e Moussa, domiciliano il transito verso un paese dei balocchi approcciato su YouTube, anelato non per miseria corrente ma per curiosità incipiente, raggiunto – ci si prova – senza palese necessità e non si sa quale, propria o altrui, virtù.
Non c’è esotismo, latita il pietismo, ma mancano pure Mangiafuoco, un amico almeno un po’ Lucignolo, ché Moussa non lo è, per tacere del Gatto e della Volpe, mentre i grilli parlanti hanno tutti voce in capitolo, senza temere di essere schiacciati: insomma, che Pinocchio è questo, pacificato, moderatamente periglioso (avremmo detto peggio: nel racconto, non nella storia), scarsamente conflittuale, vastamente solidale?
Si rischia l’edificante, il parabolico se non il favolistico, con lo spauracchio del buonismo che s’allunga su questi migranti, come se la intenzionale e funzionale sparizione del regista, ovvero del dispositivo cinematografico, si facesse colmare da buoni sentimenti, belle speranze e carità musulmana. No, non è così. Garrone è sapiente, narrativamente e dunque ideologicamente: non ci sono balene, non ci sono mangiafuochi perché siamo noi, noi spettatori, noi italiani ed europei. Noi bianchi. E lo siamo in misura terribile, infida, letteralmente o-scena: quando Seydou grida pieno d’orgoglio Io capitano, noi vediamo lo scafista.