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Sì, l’Oscar l’ha vinto Hayao Miyazaki con Il ragazzo e l’airone, ma vuoi mettere? Quarto lungometraggio e primo d’animazione del sessantenne spagnolo Pablo Berger, Il mio amico robot, in originale Robot Dreams, è un capolavoro. O ci si avvicina molto.
Debbo usare, per poco, la prima persona. Avendolo perso a Cannes 2023, dove passò in Special Screenings, rientrato in Italia chiesi e ottenni da un’amica un link per la visione, ma per una serie di sfortunate coincidenze prima che “spirasse” ebbi modo di vederne solo un terzo, una mezz’ora. Ebbene, bastò per rimpiangere la visione completa e, ancor più, per lodarlo senza tema di smentita e farmene latore presso amici e colleghi: non serve bere un’intera bottiglia, diceva o giù di lì Oscar Wilde, per sincerarsi della bontà del vino.
Insomma, Robot Dreams lasciava una sconfinata nostalgia, un calore a scomparsa, il lascito di qualcosa di bello e buono insieme. E lo faceva, lo fa elevando a potenza immaginifica un’unione cane-robot capace di echeggiare parimenti Jacques Tati e i nostri amori. Che levità, che gratuità in quel sodalizio sui generis, che tanta parte del nostro sguardo, del nostro sentire include: ma si può non solo immedesimarsi, bensì identificarsi nel desio, negli aneliti di un animale per la macchina, e viceversa?
Berger, che già aveva incantato con Blancanieves, fa dell’animazione canto amicale e proseliti tra grandi e piccini, gentilmente quanto ineluttabilmente sopraffatti dalle affinità tra DOG e ROBOT nella Manhattan anni Ottanta – occhio, passerà con tela sottobraccio anche Basquiat.
Ha vinto, dicevamo, Miyazaki, eppure già nel titolo la sinergia cane e robot non è preferibile a ragazzo e airone? Lo è davvero, a partire dal tratto, in cui la chiarezza, la pulizia, il rigore sono promessa di felicità: un’immanenza, diremmo, presaga di trascendenza, trasgressione, fantasia al potere. E cos’è questa immanenza, già della graphic novel omonima di Sara Varon cui Berger ha attinto, se non la linea chiara della scuola franco-belga e dell’Hergé di Tintin, reiterata negli Ottanta da Serge Clerc, Yves Chaland e Floc’h.
Berger prende a piene mani e perfeziona le convergenze parallele di DOG e ROBOT: stanco di essere solo, il cane ordina e assembla un droide, con gli Earth, Wind & Fire a benedire e approfondire l’inedita amicizia. Purtroppo, non durerà, e non per l’affievolirsi dell’affetto: DOG si trova costretto ad abbandonare – un cane che abbandona, eh eh… - ROBOT sulla spiaggia, e che ne sarà di loro, e che ne sarà di noi?
Ci vuole forza per affrontare la fragilità, e Berger, anche sceneggiatore in solitaria, ne è provvisto: sono frammenti amorosi, elaborazioni della mancanza, destini beffardi, epifanie strazianti le tessere di questo mosaico cinefilo e umano, cinofilo e robotico, strappato alla carta, ridondato su schermo e consegnato alla poesia, delle piccole, piccolissime cose, del minimalismo sempre concavo, dell’arguzia sempre acuta.
Una bellezza, un ristoro dell’anima, una pausa dalle brutture del mondo, e come vogliono gli Earth Wind & Fire di September “Love was changin' the minds of pretenders”. Ah, non ve l’abbiamo detto Il mio amico robot è pressoché muto, ma faticherete ad accorgervene, presi come sarete dall’affratellamento per le immagini e i palpiti. In questi anni così tormentati e sciatti l’animazione non ci ha lasciato a noi stessi, no: La tartaruga rossa di Michaël Dudok de Wit, Spider-Man: Into the Spider-Verse e Robot Dreams di Pablo Berger ci hanno voluto bene. Ci vogliono bene.