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Il giorno dell'incontro - Foto Jeong Park
Il bianco e nero, il pugilato. Impossibile non pensare e al tempo stesso avvicinarsi al Toro scatenato di Martin Scorsese, impossibile non lasciarsi sedurre dal folk-blues di Sixto Rodriguez (Crucify Your Mind) che apre l'opera prima di Jack Huston (nipote del leggendario John), Il giorno dell'incontro (Day of the Fight in originale, proprio come il primo corto girato da Kubrick nel 1951...): in una New York primi anni '90, l'ex campione dei pesi medi Mike Flannigan, Irish Mike per i fan, Mickey per il quartiere (un Michael Pitt dolente e ritrovato) è da poco uscito di prigione.
Alle spalle un passato di tragedie (la morte della mamma quando aveva 12 anni), il rapporto conflittuale con il padre, l'alcolismo, la fine di una relazione e una figlia ormai 13enne che si accontenta di salutare tutte le mattine al di qua del marciapiede della scuola: come da titolo, però, è arrivato il giorno dell'incontro, il primo dopo almeno un decennio trascorso in carcere (tempo che comunque non ha lenito il senso di colpa per l'incidente che ha causato), naturalmente il combattimento più importante della sua vita, quello che - contro ogni pronostico - potrebbe riconsegnargli la cintura da campione di categoria.
Boxe e redenzione, nulla di nuovo sotto il sole, per carità, ma non si rimane indifferenti di fronte all'idea di un cinema fuori tempo massimo e fuori moda che sembra accompagnare le intenzione di Jack Huston: l'avvicinamento al match (che nei 107' di durata del film occuperà sì e no una decina di minuti) è il cuore stesso di un percorso che porta il protagonista a rimisurare se stesso nel rapporto con gli altri, dallo zio (Steve Buscemi) all'allibratore che lo dà 40 a 1, passando per il vecchio amico oggi prete (John Magaro) e per l'ex compagna Jessica (Nicolette Robinson), fino al padre ormai assente, o forse no (Joe Pesci, con incredibile inserimento diegetico di una sua canzone, If I Ever Lost You, "pensavo l'avessi scritta per mamma"...) e al suo storico allenatore (Ron Perlman), che anche questa volta, per l'ultima volta, sarà al suo angolo.
Ecco, cinema fuori moda dicevamo, dove l'afflato malinconico guarda sì al cinema classico e dove a volte non ci si riesce a smarcare dal luogo comune di alcuni prototipi, con il presente in bianco e nero e i ricordi del passato che riaffiorano come lampi dai colori tenui: una “fiaba tragica”, come la definisce lo stesso regista, che ha cercato “di catturare l’essenza di una vita in un solo giorno – l’amore, il dolore, la sofferenza, la felicità, il modo in cui i ricordi ci assalgono senza motivo e senza preavviso. La macchina da presa agisce come un’estensione del nostro antieroe. Siamo al suo fianco nel suo viaggio, e lui ci trascina avanti. È una storia costruita sull’introspezione, che pone una domanda fondamentale: fino a che punto siamo disposti a spingerci per coloro che amiamo?”.