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Il caftano blu
In Marocco Halim fa il maalem: il mastro sarto. Cuce, ricama, rattoppa, rifinisce abiti nunziali. Con pazienza certosina e occhio annacquato di malinconia. È l’ultimo custode di un sapere travolto dalla furia consumistica della velocità produttiva. La moglie Lina, alla cassa, tiene di conto. Le stoffe da sferruzzare, però, sono sempre parecchie: il maleem consegna sempre col fiatone. Così, marito e moglie ingaggiano il tenebroso, timoroso Youssef come apprendista.
Il suo ingresso in sartoria squaderna la calma apparente di una coppia, che, al di là della sua incomunicabilità, prova a fare fronte comune contro la repressione dell’identità e lo spettro della morte. Lina, dopo un’operazione al seno si è arresa all’inedia: i suoi pasti sono sempre più striminziti, e la sua presenza in sartoria, così fondamentale in principio, si dirada.
Così Halim, che si macera nella sua omosessualità repressa, si ritrova, senza più intralci, occhi negli occhi con il giovane novizio delle stoffe. Galeotto è il caftano: le mani che intrecciano fili e tessuti, si intrecciano. La passione sin dal principio, però, lacera e colpevolizza: dall’altra parte del Mediterraneo l’omosessualità è ancora un’onta, repressa con pene che oscillano dai sei mesi ai tre anni di reclusione. Lina, però, è più più liberale della legge: sul crepuscolo della vita, trova coraggio e lucidità per rendere il marito sé stesso senza mascheramenti o condizionamenti. Anche a costo di altre sofferenze.
Detto della semplice trasparenza, diciamo anche della prevedibile derivabilità della trama, Il Caftano blu conquista per lo stile, per la selettività con cui Maryam Touzani inquadra una storia dall’incedere compassato, dalla scrittura ragionata (la regista è anche sceneggiatrice a quattro mani con Nabil Ayouch), dalla recitazione studiata e calibrata. Un film che al di là del triangolo amoroso, prende vigore in funzione del contesto a cui rimanda, del Marocco che mostra di scorcio, di dettaglio, di fuoricampo (le grida dei passanti, le preghiere, le partite di calcio), d’interni (la sartoria, la camera nunziale, il bagno turco) e d’esterni (i vicoli claustrofobici della medina).
Nell’universalità di temi, la cineasta mostra empatia e polso senza cedere al facile vouyerismo, soffermandosi sulle curvature emotive delle sue creature con un tono languoroso e intenerito che resiste pur nell’abbondanza di micro-scene.
Soprattutto, sull’erompere e insieme sul disgregarsi della passione, insinua il senso strisciante e inarrestabile della morte, del tempo che sfugge, modella e cancella il destino umano: è il tempo di Lina, la cui eternità del sentimento d’amore, si scontra con l’incombenza della morte; è il fuori-tempo di Yalim, riflessivo e meditabondo, eppure rincorso dalle consegne in sartoria e dalla paura di togliere i lucchetti a un’identità proibita; è il tempo, infine, del giovane Youssef, in ritardo su un mondo artigianale che chiude i battenti, in anticipo su un Diritto che frusta i suoi sentimenti.
Sì è scritto a proposito del film, forse sminuendolo, sicuramente non rendendogli un gran servizio, che sia Un filo nascosto in Marocco. In realtà il Caftano blu (applaudito e premiato a Cannes 2022, prima di rappresentare la nazione africana agli Oscar) nel suo realismo intimista, ha virtù a sufficienza per fare partito a sé, pur rimandando a tanti altri padri nobili che per brevità e amor di chi legge, evitiamo di almanaccare.
Tra cinefilia e impeto di cambiamento sociale, infatti, Il caftano trova subito la sua peculiarità lavorando di analogia e allusività dei silenzi, di doppiezza di parole e occhi come di pregnanza dei gesti, di policromia degli ambienti (il blu, appunto, ma anche il bianco e l’ocra), di densità di gesti e sguardi. Soprattutto, sui titoli di coda, pervade lo spettatore una certa commovente, inscalfibile tenerezza verso creature schiacciate dal pregiudizio, alla ricerca di una libertà anticonvenzionale ancora da conquistare.