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How to Have Sex
Non è solo per la superficie (una vacanza in piscina) o per la nazionalità (britannica in entrambi i casi) se How to Have Sex fa venire in mente Aftersun. C’è qualcosa di più profondo, che riguarda le forme più dei contenuti: sono film scontornati dall’esperienza che al di là di ciò che raccontano nello specifico sembrano incastonarsi nel crocevia interiore tra ricordo e stomaco, mentre il battito del cuore si accelera a mano a mano che la memoria si fa tattile. E, anche qui, se sull’esteriore tutto parla dell’oggi (il cellulare come prolungamento del corpo), in realtà l’esordio nel lungometraggio della trentenne Molly Manning Walker prende di petto un macigno della contemporaneità: il sesso, la sua centralità e le sue conseguenze.
A partire da un titolo esplicitamente “programmatico”, How to Have Sex mette in scena il sesso come desiderio (l’obiettivo delle tre protagoniste in vacanza), rito di passaggio (una di loro, Tara, è l’unica vergine), gioco (la simulazione con la lattina di birra), aggregatore sociale (i pre-festa alcolici nella stanza sono anche preparatori per gli eventuali incontri), paura (fino a che punto si è consenzienti?). Ambientato in un villaggio vacanze a Malia, a Creta, in un’estate segnata dall’attesa dei risultati degli esami, segue le vicende di Tara, Em e Skye: bevono e ballano fino all’alba, di giorno bivaccano in piscina, fanno subito amicizia con i vicini di stanza, il fatuo Badger, l’ambiguo Paddy e la lesbica Paige. Non è solo un coming of age che prende il sesso come simbolo della linea di confine, ma anche un affresco piuttosto interessante sull’essere adolescenti (oggi): la vergogna dello stare al mondo declinata sul deficit d’esperienze (il gioco dell’“io non ho mai” come banco di prova), la propensione a ubriacarsi per accantonare tutto ciò che può scalfire la necessità del divertimento, il conflitto tra autodeterminazione e individualismo.
E il sesso, quello tanto desiderato all’inizio, alla fine è nudo: svuotato della sua componente erotica (Tara non gode mai), riplasmato secondo i canoni dell’avventura estiva (Em, la più assennata, si invaghisce di Paige), ridotto a schermaglia (Skye, che del terzetto è la più scaltra, non è immune alle carognate, specie contro l’amica Tara). Resta quel che c’è prima e quel che c’è dopo: se dimenticare ciò che ci ha turbato è l’unico modo per andare avanti, come si diventa grandi?
Molly Manning Walker, anche sceneggiatrice, parte da qualcosa che la tocca di vicino (ha subito un’aggressione sessuale, già al centro del suo corto Good Thanks, You?) ma riesce a trascendere il dato personale in un racconto più stratificato, trovando nella brillante e malinconica Mia McKenna-Bruce una complice e un’eroina, sia osservandone il peregrinare tra uno sconfinamento e l’altro sia dedicandole quelle premure che Tara meriterebbe in quel preciso momento. E che forse solo Badger, con tutti i suoi limiti e al contempo con un’empatia istintiva, potrebbe offrirle. Baciato dalla calda e nostalgica fotografia di Nicolas Canniccioni, vincitore di Un Certain Regard a Cannes 2023, film d’apertura alla ventunesima edizione di Alice nella Città, la sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma dedicata alle nuove generazioni, è un piccolo manifesto