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Hoard
C’è il soffio del free cinema in Hoard, presentato alla Settimana Internazionale della Critica a Venezia 2023, esordio nel lungometraggio della ventiseienne londinese Luna Carmoon. Soffio, appunto, perché di quella stagione lontana – almeno a dar retta all’anagrafe – Carmoon assume sì il desiderio di rivalsa, la collera verso il conformismo e l’adesione a un sentimento che mette insieme la rabbia e la tenerezza, ma allo stesso tempo balla da sola, come si conviene a una giovane autrice della sua età.
E se è ragionevole pensare che per certi versi il suo sia un film personale quanto perfino lineare nello svolgimento apparentemente sovversivo, è pur vero che Carmoon se sbaglia lo fa per conto suo, anche quando rischia di risultare derivativa (qua e là si intravedono le lezioni di Mike Leigh, Ken Russell, Tony Richardson, Ken Loach…). E questo perché Hoard è un film che ribolle, pieno d’amore e dolore, di ricordi che dilaniano sottoforma di oggetti, feticci, gesti, rumori, visioni.
È la storia di una madre e di una figlia, Maria, che parte nel 1984: la famiglia omogenitoriale abita in una casa che è quasi una discarica, dove il Natale dura tutto l’anno e tutti gli scarti della città trovano una nuova vita dopo essere stati recuperati dalle due nei loro infiniti peregrinaggi nel sud-est londinese. A forza di convivere con i rifiuti, che in un eccentrico lessico familiare diventano oggetti di un discorso amoroso, Maria porta addosso un odore che gli altri definiscono puzza ma per lei rappresenta la normalità. Normalità destinata a interrompersi quando alla mamma accade qualcosa di dirompente. Dieci anni dopo, arrivata all’ultimo giorno di scuola, Maria si ritrova in casa uno sconosciuto, del quale riconosce lo stesso odore (l’odore del trauma), lo stesso desiderio (gli oggetti), la stessa paura (la follia).
È un film denso e imperfetto, Hoard, lunga ricognizione del dolore che trova la forma di un dramma mai accademico né didascalico, struggente anziché malinconico, più carnale che erotico, empatico nella misura in cui Carmoon vi innesta la vita, la sua e quella di chi può riconoscersi in lei. Hoard si fonda su due personaggi, tre corpi (due per Maria, prima piccola e poi grande, e uno per la mamma) che si fondono in una relazione che solo superficialmente può definirsi tossica, esito invece di una convergenza di supporto, dipendenza, attaccamento, rancore (rispettivamente Lily-Beau Leach e poi Saura Lightfoot Leon e Hayley Squires, amata protagonista di Io, Daniel Blake).
Non è un caso che tra i film preferiti della regista ci siano Out of the Blue di Dennis Hopper, L’estate assassina di Jean Becker e A distanza ravvicinata di James Foley, tre grandi, malati, strazianti film su come un rapporto genitore-figlio possa condizionare le vite fino a divorarle. Carmoon ci mette il cuore e il cervello, sta addosso ai corpi per sentirne il tormento e l’estasi (per il Joseph Quinn di Stranger Things è una prova del nove), prende di petto la memoria e la reinventa in un film che nel fronteggiare il reale non rinuncia alla possibilità del fiabesco.