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Ogni film è un’opera prima, sulle tracce di Jonathan Demme, quel maestro di cui Richard Linklater resta, se non l’erede, magnifico seguace: ne ha mutuato la versatilità e il dinamismo, la curiosità e la coerenza, la capacità di trasformarsi e la linearità del percorso, alla ricerca del cinema perduto per restituirlo a chi verrà dopo. Hit Man (distribuito da BIM con il sottotitolo Killer per caso, a Venezia 80 era Fuori Concorso ma avrebbe meritato di correre per un premio) che arriva da lontano, scova il classico nel contemporaneo, svela la cinefilia nell’immaginario, trova l’ordinario nello straordinario, offre alla nostalgia la possibilità di farsi futuro.
Da un articolo di Skip Hollandsworth pubblicato sulla rivista Texas Monthly (stesse fonti dell’inquietante e beffardo Bernie, perla nera del regista), un classico istantaneo che crede fortemente nel cinema, in cui il protagonista è sia funzione del racconto che strumento di una riflessione teorica. Ha un nome banale, Gary Johnson, ed è un tipo strano, poco se non per niente carismatico: vive a New Orleans, è separato ma ha un ottimo rapporto con l’ex moglie ora incinta, insegna psicologia e filosofia all’università, ha una faccia dimenticabile, indossa abiti poco appariscenti, si prende cura dei gatti (si chiamano Es e Ego), coltiva una passione per gli uccelli e lavora part-time per la polizia.
Ce lo spiega lui, senza troppi giri di parole, con tono quasi naïf, lo stesso che adotta per raccontare la svolta della sua vita: viene incaricato di sostituire un tipo bislacco, distintosi per comportamenti razzisti e violenti e dunque congedato suo malgrado, la cui mansione consiste nello spacciarsi per killer professionista. Lo schema è semplice quanto pericoloso: un cliente contatta Gary per uccidere qualcuno e, all’atto del pagamento, cade nella trappola della polizia. Da secchione qual è, il nostro eroe studia le personalità dei committenti: si trasforma – nell’eloquio, nella prossemica, nell’estetica – affinché loro possano fidarsi completamente di lui, diventando così il più ricercato killer su piazza.
E già qui Linklater – complice la voce narrante che indica letteralmente la pista tematica – ragiona sulla figura del sicario in quanto funzione cinematografica che non ha convergenze con la realtà: attraverso un montaggio piuttosto vertiginoso di scene celebri (in moviola la fidata Sandra Adair, il cui trentennale sodalizio con il regista ha prodotto miracoli come la trilogia di Prima dell’alba e Boyhood), Linklater smonta e scandaglia l’iconografia plasmata dal grande schermo, quella che vuole il sicario glaciale e spietato, per negarne il posizionamento nella realtà e riconfigurarla in un personaggio “in fieri”, che crede di essere ormai cristallizzato in un’immagine senza palpiti ed è invece travolto dalle infinite – e sorprendenti – possibilità della sua personalità.
Hit Man è il racconto di un uomo che capisce di poter essere altro da sé, a partire dal momento in cui infrange il protocollo per aiutare la portoricana Maddy, una donna disperata e in fuga da un fidanzato violento. Per lei diventa il sexy Ron, assassino tenebroso e gentile che diventa una versione alternativa di Gary, un prolungamento inatteso e un completamento naturale: qual è il confine tra realtà e finzione? Come si può portare il meglio dell’una nell’altra? Come distinguere la maschera dal volto?
Quintessenzialmente indie e gioiosamente inattuale, leggero e mai frivolo, Hit Man scavalca il biopic per svincolare la storia dal dato biografico: come Gary, il film passa dal divertimento della commedia al ritmo dell’action, adotta il côte romantico e attraversa il thriller con il sottofondo noir a ricordarci il contesto, sconfina nell’umorismo meno accomodante e non rinuncia a momenti malinconici. Non si tratta di un gioco intellettuale in cui la struttura rispecchia il personaggio, ma di un film clamoroso, sostenuto da una sceneggiatura magistrale per la perfetta costruzione narrativa e l’irresistibile precisione dei dialoghi (Billy Wilder ne sarebbe stato compiaciuto), scritta da Linklater con Glen Powell.
Attore – anche produttore, uno e trino – già nel giro del regista – sono entrambi texani – dai tempi di un film sottovalutato e magnifico come Tutti vogliono qualcosa!! che qui è francamente memorabile, credibile in ogni travestimento (compreso quello nerd: mica è facile per un sex symbol essere attendibile come sfigatello senza ricorrere a trucchi e magheggi), completamente consapevole del ruolo cucitogli addosso e anche dell’importanza di un film del genere nella sua carriera. È un po’ la prova definitiva del suo star power: cronologicamente è successivo a Top Gun: Maverick, ma per motivi di distribuzione arriva dopo l’imprevisto successo di Tutti tranne te che l’ha reso un reuccio della commedia commerciale capace di rinverdire il parterre hollywoodiano (è un momento decisivo per il settore, vedasi le ascese dei millennials Timothée Chalamet, Zendaya, Jeremy Allen White e Sydney Sweeney). Powell guida un cast intonatissimo, in cui si distinguono l’ammaliante Adria Arjona, la stand-up comedian Retta e Austin Amelio come poliziotto fuori di testa. Nel cinema degli Stati Uniti, Linklater conferma una doppia appartenenza: quella allo stato del Texas e quella allo stato di grazia.